Short dual antiplatelet therapy followed by P2Y12 inhibitor monotherapy vs. prolonged dual antiplatelet therapy after percutaneous coronary intervention with second-generation drug-eluting stents: a systematic review and meta-analysis of randomized clinical trials.

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Indice

Abstract

Aims: After percutaneous coronary intervention (PCI) with second-generation drug-eluting stent (DES), whether short dual antiplatelet therapy (DAPT) followed by single antiplatelet therapy (SAPT) with a P2Y12 receptor inhibitor confers benefits compared with prolonged DAPT is unclear.

Methods e results: Multiple electronic databases, including PubMed, Scopus, Web of Sciences, Ovid, and Science Direct, were searched to identify randomized clinical trials comparing ≤3 months of DAPT followed by P2Y12 inhibitor SAPT vs. 12 months of DAPT after PCI with second-generation DES implantation. The primary and co-primary outcomes of interest were major bleeding and stent thrombosis 1 year after randomization. Summary hazard ratios (HRs) and 95% confidence intervals (CIs) were estimated by fixed-effect and random-effects models. Multiple sensitivity analyses including randomeffects models 95% CI adjustment were applied. A sensitivity analysis comparing trials using P2Y12 inhibitor SAPT with those using ASA SAPT was performed. A total of five randomized clinical trials (32 145 patients) were available. Major bleeding was significantly lower in the patients assigned to short DAPT followed by P2Y12 inhibitor SAPT compared with those assigned to 12-month DAPT (random-effects model: HR 0.63, 95% 0.45–0.86). No significant differences between groups were observed in terms of stent thrombosis (random-effects model: HR 1.19, 95% CI 0.86–1.65) and the secondary endpoints of all-cause death (random-effects model: HR 0.85, 95% CI 0.70– 1.03), myocardial infarction (random-effects model: HR 1.05, 95% CI 0.89–1.23), and stroke (random-effects model: HR 1.08, 95% CI 0.68–1.74). Sensitivity analyses showed overall consistent results. By comparing trials testing ≤3 months of DAPT followed by P2Y12 inhibitor SAPT vs. 12 months of DAPT with trials testing ≤3 months of DAPT followed by ASA SAPT vs. 12-month of DAPT, there was no treatment-by-subgroup interaction for each endpoint. By combining all these trials, regardless of the type of SAPT, short DAPT was associated with lower major bleeding (randomeffects model: HR 0.63, 95% CI 0.48–0.83) and no differences in stent thrombosis, all-cause death, myocardial infarction, and stroke were observed between regimens. Conclusion After second-generation DES implantation, 1–3 months of DAPT followed by P2Y12 inhibitor SAPT is associated with lower major bleeding and similar stent thrombosis, all cause death, myocardial infarction, and stroke compared with prolonged DAPT. Whether P2Y12 inhibitor SAPT is preferable to ASA SAPT needs further investigation.


Intervista a Daniele Giacoppo

Università degli Studi di Padova

Dottor Giacoppo, qual è il take home message di questa analisi?
Questa meta-analisi fornisce diverse importanti risposte riguardo la terapia antitrombotica dopo angioplastica coronarica percutanea con impianto di stent medicato. La principale conclusione è che una breve doppia antiaggregazione seguita da monoterapia con inibitore P2Y12 è associata a una significativa riduzione dell’incidenza di sanguinamento maggiore a 12-15 mesi e una similare efficacia antitrombotica in comparazione a una doppia antiaggregazione prolungata. In particolare, a 12-15 mesi dall’angioplastica coronarica con impianto di stent medicato, avvenuta a causa di sindrome coronarica acuta in proporzioni tra il 40% e il 65% circa dei pazienti arruolati negli studi GLOBAL LEADERS, SMART-CHOICE, STOPDAPT-2, e TWILIGHT e per infarto miocardico acuto nel 100% dei pazienti arruolati nello studio TICO, l’incidenza di trombosi dello stent, morte da qualunque causa, infarto miocardico, e ictus non sono risultati significativamente differenti tra le due strategie antitrombotiche con stime largamente rassicuranti. Questi risultati mostrano pertanto da una parte l’assenza di un chiaro vantaggio antitrombotico associato alla doppia antiaggregazione prolungata tradizionale e dall’altra la presenza di un possibile beneficio in termini di riduzione del sanguinamento maggiore. Una seconda importante conclusione è che l’assenza di differenze significative, in termini di endpoint ischemici maggiori tra 1-3 mesi di doppia antiaggregazione e 12 mesi di doppia antiaggregazione, è confermata all’analisicombinata degli studi basati su monoterapia antipiastrinica con inibitore P2Y12 e degli studi basati su monoterapia antipiastrinica con acido acetilsalicilico, la strategia tradizionale. Infatti, l’inclusione anche degli studi RESET, OPTIMIZE, e REDUCE, per un totale di 9 studi randomizzati e oltre 38.000 pazienti, ha confermato che una doppia antiaggregazione di 1-3 mesi seguita da monoterapia antiaggregante con acido acetilsalicilico o un inibitore P2Y12 conferisce simile protezione antitrombotica rispetto a una doppia antiaggregazione ininterrotta per 12 mesi. L’ultima conclusione rilevante, da considerarsi tuttavia esplorativa a causa delle limitazioni in potere statistico dettate dal test d’interazione, è che non sembra esserci alcun segnale di inconsistenza tra gli effetti degli studi basati su monoterapia con inibitore P2Y12 e quelli degli studi basati su monoterapia con acido acetilsalicilico. I reali vantaggi della monoterapia con inibitore P2Y12 in sostituzione dell’aspirina (ASA) necessitano quindi una definizione più robusta mediante studi comparativi di alta qualità. La riduzione del major bleeding osservata con una DAPT di 1-3 mesi dopo impianto di DES mostra tuttavia un’elevata eterogeneità, che viene solo modestamente mitigata escludendo questo o quel lavoro. Come spiega il dato e quale impatto può avere nell’interpretazione globale dei dati? Come correttamente sottolineato, è stata evidenziata un’alta eterogeneità tra gli effetti degli studi inclusi nella meta-analisi in termini di sanguinamento maggiore definito secondo i criteri Bleeding Academic Research Consortium. Tuttavia, l’esplorazione di questo risultato mediante analisi aggiuntive ha permesso di definirne le motivazioni. L’eterogeneità degli effetti tra gli studi inclusi è essenzialmente da imputare agli effetti contrastanti tra lo studio GLOBAL LEADERS, lo studio con maggiore sample size dove non si è riscontrata a 12 mesi una differenza significativa in sanguinamento maggiore tra doppia antiaggregazione per 1 mese seguita da inibitore P2Y12 e doppia antiaggregazione per 12 mesi, e il TWILIGHT, lo studio con secondo sample size in termini di grandezza, dove si è osservata una significativa riduzione dell’incidenza del sanguinamento maggiore associata a 3 mesi di doppia antiaggregazione seguita da monoterapia con inibitore P2Y12, per una riduzione del rischio relativo del 50% circa. All’analisi mediante rimozione sequenziale di uno studio alla volta, chiamata “leave-one-out”, in assenza dello studio GLOBAL LEADERS o dello studio TWILIGHT, la stima dell’I2 ― un parametro statistico per definire l’entità dell’eterogeneità tra studi nelle meta-analisi ― si riduceva significativamente. In aggiunta, bisogna anche evidenziare come lo studio STOPDAPT-2 ha mostrato un effetto marcatamente a favore di una riduzione del sanguinamento maggiore associata a una breve doppia antiaggregazione seguita da monoterapia con inibitore P2Y12, per una riduzione del rischio relativo del 70%. Tuttavia, l’impatto di questo studio è meno rilevante nell’analisi a causa del minore peso relativo. In generale, l’eterogeneità in sanguinamento maggiore evidenziata nella meta-analisi, a prescindere da valutazioni statistiche, deve informare il clinico riguardo la significativa variabilità nell’entità del beneficio associato a una breve doppia antiaggregazione. Non bisogna infatti aspettarsi un chiaro beneficio in termini di sanguinamento maggiore in qualunque categoria di pazienti. Un paziente giovane, con normale emoglobina, e assenza di condizioni di rischio sanguinamento maggiore, raramente svilupperà un sanguinamento maggiore e, in presenza di sanguinamento maggiore, poco probabilmente otterrà un beneficio prognostico in termini di sopravvivenza da una breve doppia terapia antiggreggante. D’altra parte, se nello stesso paziente è assente un rilevante profilo di rischio ischemico, la coronaropatia non presenta pattern complesso, e la rivascolarizzazione è stata completa, una doppia antiaggregazione prolungata è poco utile. L’identificazione dei pazienti con maggiore probabilità di sviluppare un sanguinamento maggiore rimane il nodo centrale della questione. Bisogna quindi promuovere analisi patient-level per identificare e definire con maggiore accuratezza il peso relativo delle diverse condizioni di rischio di sanguinamento nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica in epoca contemporanea. Il recente consensus High Bleeding Risk – Academic Research Consortium aiuta nell’identificazione dei maggiori fattori di rischio, ma onestamente il documento è insufficiente nel discriminarne l’impatto relativo individuale. Infatti, molteplici condizioni ad alto rischio vengono messe sullo stesso piano ed è accertato, in base a precedenti studi, come i fattori di rischio di sanguinamento etichettati come maggiori o minori nel consensus abbiano a loro volta, all’interno di ogni categoria, diverso peso relativo nello sviluppo del sanguinamento maggiore e nella probabilità di sopravvivenza dopo sanguinamento maggiore. Se si interrompe la duplice antiaggregazione piastrinica precocemente, con quale antipiastrinico continuare? I suoi dati non mostrano una superiorità degli inibitori del recettore P2Y12 rispetto all’ASA. Come comportarsi? In base ai risultati della meta-analisi, gli effetti degli studi con breve doppia antiaggregazione seguita da monoterapia con inibitore P2Y12 – quindi basati sulla sospensione dell’acido acetilsalicilico e la prosecuzione dell’inibitore P2Y12 – mostrano effetti largamente sovrapponibili agli studi con breve doppia antiaggregazione seguita da monoterapia con acido acetilsalicilico – quindi basati sulla pratica comune della sospensione dell’inibitore P2Y12 e la prosecuzione dell’acido acetilsalicilico. Sebbene questi risultati vadano adeguatamente confermati mediante comparazioni randomizzate head-to-head tra monoterapia con un inibitore P2Y12 e acido acetilsalicilico, al momento non sembrerebbe esserci una significativa differenza tra le due strategie. Personalmente, in pazienti senza sopravvenute indicazioni ad anticoagulazione orale o controindicazioni relative alla terapia con acido acetilsalicilico comprovate o sospette, ritengo al momento essere accettabile l’utilizzo dell’acido acetilsalicilico come monoterapia a tempo indefinito. All’analisi individuale dei vari farmaci disponibili, è noto come l’acido acetilsalicilico sia associato a ipersensibilità, intolleranza, e gastrite con frequenze non trascurabili. Inoltre, sussistono casi di pazienti non-responder al trattamento. D’altra parte, sebbene i sostenitori della monoterapia con inibitore P2Y12 spesso lo dimenticano, il clopidogrel è anch’esso associato a proporzioni variabili di pazienti non-responder e il ticagrelor è poco tollerato da alcuni pazienti per insorgenza di dispnea e turbe della conduzione. Il ticagrelor inoltre necessita di duplice somministrazione giornaliera e questo può essere causa a lungo termine di inadeguata compliance, soprattutto in pazienti con età avanzata senza supporto familiare e multiple terapie farmacologiche contemporanee. Il prasugrel potrebbe presentare un profilo favorevole, soprattutto dopo i risultati rassicuranti di una sottoanalisi dell’ISAR REACT 5, dove una riduzione della dose nel contesto della doppia antiaggregazione ha mostrato un profilo di sicurezza accettabile in pazienti con età avanzata e basso peso corporeo. Tuttavia, la complessiva quantità di dati riguardante la monoterapia con prasugrel è francamente inadeguata per trarre solide conclusioni. Lo studio ASET ha preliminarmente affrontato il quesito, ma studi dedicati con adeguato sample size e metodologia più rigorosa sono necessari. Infine, nel contesto di questa domanda, vorrei brevemente menzionare i recenti risultati dello studio HOST-EXAM dove oltre 5.000 pazienti trattati mediante angioplastica coronarica percutanea, dopo 6-18 mesi di doppia antiaggregazione, senza che durante questo periodo si fosse verificato alcun evento, sono stati randomizzati a monoterapia antiaggregante con acido acetilsalicilico o clopidogrel. Durante i 24 mesi di follow-up ― mediamente 36 mesi dopo angioplastica percutanea ― il gruppo di pazienti assegnati a clopidogrel ha mostrato una significativa riduzione dell’incidenza dell’end-point composito primario netto ischemico-emorragico. Tuttavia, l’analisi dei singoli endpoint ha rivelato come il beneficio osservato sarebbe da attribuirsi prevalentemente alla ridotta incidenza di sanguinamento maggiore, ictus, e re-ospedalizzazione per sindrome coronarica acuta, mentre gli endpoint maggiori di morte, morte cardiaca, infarto miocardico, e trombosi dello stent non sono risultati essere significativamente differenti tra i due gruppi. I dati dello studio HOST-EXAM sono importanti perché rappresenta la prima comparazione tra inibitore P2Y12 e acido acetilsalicilico dopo doppia antiaggregazione per angioplastica coronarica percutanea. Tuttavia, il disegno dello studio HOST-EXAM è rivolto maggiormente alla prevenzione antitrombotica cronica e l’incidenza degli eventi comincia a divergere per cause poco note a partire approssimativamente dal 9° mese di follow-up. Inoltre, il beneficio associato a clopidogrel, in termini di sanguinamento maggiore, è difficile da interpretare considerando l’assenza di simili risultati in molteplici studi, come ad esempio il CAPRIE, il TICAB, il DACAB, e il SOCRATES, confrontanti un inibitore P2Y12 con l’acido acetilsalicilico nella prevenzione secondaria in altri setting clinici. Nuovi dati sono necessari per poter fornire risposte definitive al quesito.

Il razionale per una riduzione del sanguinamento è basato soprattutto sul rapporto tra sanguinamento e mortalità. Tuttavia, questa correlazione non pare osservarsi nella vostra analisi. Qual è la sua interpretazione?
Sebbene in precedenti studi osservazionali e sottoanalisi di studi randomizzati, il sanguinamento maggiore sia stato associato a un incremento della mortalità, nella meta-analisi non è stata osservata una consistente riduzione dell’incidenza di morte da qualunque causa nei pazienti randomizzati a breve doppia antiaggregazione seguita da monoterapia con inibitore P2Y12. Con la premessa che la riduzione dell’incidenza del sanguinamento maggiore rimane comunque un evidente vantaggio a prescindere dalla consensuale riduzione della mortalità, questi risultati potrebbero indicare l’assenza di un significativo impatto prognostico sulla sopravvivenza derivante dalla riduzione dell’incidenza di sanguinamento maggiore. Questo effetto andrebbe interpretato nel contesto delle categorie di pazienti arruolati negli studi randomizzati inclusi nella meta-analisi, i quali presentano caratteristiche compatibili con lieve o moderato rischio di sanguinamento. Infatti, i pazienti dove l’impatto sulla mortalità derivante dalla riduzione del sanguinamento maggiore è più forte sono quelli con età avanzata, anemia significativa, insufficienza renale cronica avanzata, multiple comorbidità, ecc. Questi setting sono chiaramente sottorappresentati negli studi inclusi nella meta-analisi. È ragionevole sostenere che questi pazienti potrebbero maggiormente beneficiare di una breve doppia antiaggregazione se non fosse che, sfortunatamente, il paziente a elevato rischio di sanguinamento è spesso anche quello a elevato rischio trombotico. Infine, vorrei concludere la mia risposta ricordando come risulti estremamente difficile identificare una causalità tra sanguinamento maggiore e mortalità mediante un’analisi studylevel. Per poter trarre conclusioni maggiormente robuste sarebbe necessario avere accesso ai dati individual patient per poter verificare se vi è un effetto moderatore significativo del sanguinamento maggiore nei confronti dell’evento terminale di morte da qualunque causa. In conclusione, alla luce dei risultati della meta-analisi non si può concludere che una breve doppia antiaggregazione seguita da monoterapia con un P2Y12 riduce la mortalità rispetto a una doppia antiaggregazione prolungata nel paziente medio sottoposto ad angioplastica coronarica percutanea con stent medicato. D’altra parte, non si può neanche escludere che la riduzione del sanguinamento maggiore possa tradursi in una maggiore sopravvivenza in pazienti con alto rischio di sanguinamento. Infatti, in precedenti studi osservazionali e sottoanalisi di studi randomizzati, il sanguinamento maggiore è stato associato a incrementata mortalità.

La problematica della durata della duplice antiaggregazione piastrinica è soprattutto importante nei pazienti con sindrome coronarica acuta. I cardiologi sono spesso confusi tra studi che mostrano un beneficio di una terapia di durata ridotta rispetto ai canonici 12 mesi e studi che mostrano vantaggi clinici da una terapia prolungata oltre i 12 mesi. Qual è il suo parere in proposito?
I dati mostrati negli studi originali purtroppo non consentono una meta-analisi nel setting dell’infarto miocardico acuto, che a mio avviso rimane quello di maggior interesse. I dati inerenti la terapia antitrombotica dopo angioplastica percutanea coronarica e l’incrementata biocompatibilità degli stent medicati contemporanei, accumulati nel corso degli ultimi 15 anni consentono di sostenere una doppia antiaggregazione breve con relativa tranquillità nel contesto delle sindromi coronariche croniche. Le decisioni terapeutiche nella sindrome coronarica acuta, e in particolar modo nell’infarto miocardico acuto, sono invece ancora caratterizzate da grande incertezza. Nella meta-analisi le proporzioni di pazienti con sindrome coronarica acuta e infarto miocardico acuto sono rilevanti e, quando alcuni risultati relativi a questi setting sono stati presentati nei report originali dei singoli studi, la revisione dei dati non ha destato alcuna preoccupazione. In particolar modo, vorrei ricordare che in uno dei trial inclusi nella meta-analisi, lo studio TICO, sono stati arruolati solo pazienti con infarto miocardico acuto e circa un terzo di questi è stato sottoposto ad angioplastica primaria per infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST. In questo studio, nessuna differenza significativa in termini di outcome ischemici è stato rilevato tra le due strategie in base al tipo di infarto miocardico, con o senza sopraslivellamento del tratto ST. Inoltre, nella meta-analisi le stime degli effetti nello studio TICO sono risultate simili a quelle degli altri studi, includenti anche variabili proporzioni di pazienti con sindrome coronarica cronica. Per quanto riguarda il confronto tra doppia antiaggregazione inferiore e superiore a 12 mesi, a mio avviso gran parte della confusione deriva da due fattori. Il primo è il considerare allo stesso livello i risultati di studi con obiettivi differenti. Infatti, gli studi disegnati per testare la doppia antiaggregazione oltre 12 mesi cercano di rispondere ai quesiti inerenti la terapia antitrombotica di mantenimento, mentre quelli disegnati per il confronto tra diverse durate all’interno dei 12 mesi dopo la rivascolarizzazione percutanea hanno l’obiettivo di definire la gestione antitrombotica nel medio termine. In secondo luogo, gran parte dell’incertezza deriva dallo studio DAPT – di dimensioni ragguardevoli e risultati netti – il quale tuttavia è stato condotto oltre 10 anni fa, ha incluso proporzioni significative di device di prima generazione, e non trova conferma in altri studi condotti nello stesso periodo temporale, con obiettivo analogo, come il DES-LATE, l’ARCTIC Interruption, e l’OPTIDUAL. Infine, i risultati di studi come il PEGASUS-TIMI 54 e il COMPASS, i quali supportano rispettivamente la terapia aggiuntiva con ticagrelor e rivaroxaban nella prevenzione antitrombotica a lungo termine, presentano problemi di comparabilità. Questi studi infatti includono pazienti con profilo di rischio ischemico mediamente più elevato rispetto ad alcuni studi confrontanti diverse durate di doppia antiaggregazione all’interno dei 12 mesi post-procedurali. Inoltre, in questi studi i pazienti talvolta non sono stati sottoposti ad angioplastica percutanea, non vi è soddisfacente descrizione dell’estensione della coronaropatia, e soprattutto non vi è chiara informazione sul grado di completezza della rivascolarizzazione miocardica. Al momento credo non ci sia chiara evidenza per l’utilizzo sistematico o liberale di terapie croniche con molteplici farmaci antitrombotici. Tuttavia, credo che nel paziente senza rischio di sanguinamento elevato ma con un profilo di rischio ischemico significativo (diabete, dislipidemia con controllo subottimale nonostante terapia, insufficienza renale cronica avanzata, etc.), infarto miocardico ricorrente, angioplastiche percutanee coronariche ripetute, estensive, e/o interessanti sede anatomiche complesse, sia ragionevole considerare l’uso di duplici strategie antitrombotiche. L’adozione di questa soluzione terapeutica andrebbe tuttavia associata al mantenimento di un follow-up ambulatoriale semestrale-annuale per verificare l’insorgenza di condizioni perturbanti il rapporto tra rischio emorragico e rischio trombotico precedentemente definito, con inaccettabile incremento del rischio di sanguinamento maggiore.

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