Abstract
Optimal dual antiplatelet therapy (DAPT) duration for patients undergoing percutaneous coronary intervention (PCI) for coronary bifurcations is an unmet issue. The BIFURCAT registry was obtained by merging two registries on coronary bifurcations. Three groups were compared in a two-by-two fashion: short-term DAPT (≤6 months), intermediate-term DAPT (6-12 months) and extended DAPT (>12 months). Major adverse cardiac events (MACE) (a composite of all-cause death, myocardial infarction (MI), target-lesion revascularization and stent thrombosis) were the primary endpoint. Single components of MACE were the secondary endpoints. Events were appraised according to the clinical presentation: Chronic Coronary Syndrome (CCS) versus Acute Coronary Syndrome (ACS). 5.537 patients (3.231 ACS, 2306 CCS) were included. After a median follow-up of 2.1 years (IQR 0.9- 2.2), extended DAPT was associated with a lower incidence of MACE compared with intermediate-term DAPT (2.8% versus 3.4%, adjusted HR 0.23 [0.1-0.54], p<0.001), driven by a reduction of all-cause death in the ACS cohort. In the CCS cohort, an extended DAPT strategy was not associated with a reduced risk of MACE. In conclusion, among real-world patients receiving PCI for coronary bifurcation, an extended DAPT strategy was associated with a reduction of MACE in ACS but not in CCS patients.
Keywords: Dual atiplatelet theraphy; percutaneous coronary intervention; coronary bifurcation lesions.
Intervista a Ovidio De Filippo
Dipartimento di Scienze Mediche, Divisione di Cardiologia, Università di Torino
Dottor De Filippo qual è iI take home message del vostro studio?
Innanzitutto, tengo a ringraziare per la possibilità concessa di discutere di questo lavoro che è stato frutto di una notevole unione di forze tra due gruppi di ricerca, italiano e coreano, consentendo di ottenere il più grande registro esistente di pazienti trattati per biforcazioni coronariche. Il messaggio principale, che deriva dai risultati, è che nonostante un’attenzione sempre maggiore in ambito clinico e scientifico ai pazienti HBR (High Bleeding Risk), vi sono ancora dei setting in cui una DAPT estesa (oltre i 12 mesi) può fare la differenza in termini di eventi cardiovascolari avversi. In particolare, nel nostro studio, che ha incluso oltre 5.000 pazienti trattati con angioplastica percutanea su lesioni coronariche in biforcazione, una DAPT estesa per più di 12 mesi si associa a una riduzione di MACE nei pazienti ricoverati per sindrome coronarica acuta (ACS), ma non in quelli sottoposti a rivascolarizzazione per sindrome coronarica cronica (CCS). Il beneficio della DAPT estesa per oltre 12 mesi nei pazienti ACS è stato confermato in tutti i sottogruppi analizzati (strategia di PCI a due stent o provisional, lesioni del tronco comune o meno, e DAPT score > o < di 2). Viceversa, in nessuno dei sottogruppi elencati è emerso un beneficio legato alla DAPT estesa nei pazienti con CCS.
I vostri risultati mostrano come nei pazienti sottoposti a PCI con impianto di DES per una lesione in biforcazione, una DAPT prolungata oltre i 12 mesi si associa a un migliore outcome a distanza rispetto a DAPT di durata intermedia (6-12 mesi) nei pazienti con presentazione clinica di ACS, ma non in quelli con CCS. Tenere conto della presentazione clinica iniziale del paziente è quindi ancora molto importante nel prescrivere una appropriata durata di DAPT nei pazienti sottoposti a stenting coronarico?
Questo è il punto cruciale dello studio e merita una riflessione. Nel tempo, il miglioramento delle caratteristiche degli stent coronarici (in termini di spessore degli struts, delle modalità di rilascio del farmaco, della composizione dei polimeri, ecc.) ha fatto in modo che la DAPT, inizialmente necessaria e raccomandata per prevenire la complicanza più temibile legata all’impianto dei DES, ovvero la trombosi dello stent, diventasse invece una terapia da cui ci si attende un beneficio sistemico in termini di protezione da eventi aterotrombotici. Nell’analisi del solo registro coreano COBIS, che aveva arruolato prevalentemente pazienti trattati con DES di prima generazione, gli Autori riscontravano un beneficio della DAPT prolungata in termini di mortalità per tutte le cause e di infarto del miocardio, a prescindere dalla modalità di presentazione clinica (ACS o CCS). Quando invece il COBIS è stato fuso con il registro italiano RAIN, che invece inglobava una coorte di pazienti trattati con DES di nuova generazione, è emerso invece quanto risultato dallo studio in oggetto, ovvero che la presentazione clinica modula il beneficio atteso dalla DAPT estesa per oltre i 12 mesi. In altre parole, l’avvento di stent coronarici sempre più performanti ha probabilmente fatto sì che le caratteristiche e i fattori di rischio aterosclerotico del paziente, più che quelle legate allo stent, rappresentino il nodo cruciale sul quale bisogna farsi guidare nella scelta dell’intensità e durata della DAPT, perfino in scenari complessi come le biforcazioni coronariche. Un paziente che soffre di ACS è un paziente con una malattia aterosclerotica aggressiva, che probabilmente ha delle caratteristiche che determinano l’instabilità delle placche coronariche e che, pertanto, ha un rischio di recidiva di eventi aterotrombotici superiore rispetto ai pazienti che invece soffrono di coronaropatia stabile.
Una delle limitazioni della vostra analisi è l’assenza di una valutazione del bleeding, un dato che penalizza generalmente DAPT più prolungate. Secondo la sua esperienza (non solo clinica, ma da esperto della letteratura a riguardo) come ci si deve comportare per quanto riguarda la durata della DAPT nei pazienti sottoposti a impianto di DES su biforcazione, ma con caratteristiche di “high bleeding risk”?
Sicuramente l’assenza degli eventi di bleeding nel registro, insieme alla prescrizione della DAPT basata su scelta clinica e non randomizzata, rappresentano le limitazioni principali dello studio. Per cercare di inferire il beneficio atteso dalla DAPT prolungata, anche nei pazienti ad alto rischio emorragico, è stata condotta una sottoanalisi dividendo la popolazione in base al DAPT score, confermando i risultati dell’analisi principale come detto sopra. Negli ultimi anni la letteratura si è molto concentrata sui pazienti ad alto rischio emorragico e oggi sappiamo con certezza che i sanguinamenti al follow-up hanno un’implicazione prognostica pari, se non addirittura superiore, agli eventi aterotrombotici. In merito alla domanda credo che lo studio e i dati di letteratura suggeriscano una risposta: la complessità della procedura di rivascolarizzazione (biforcazioni, procedure del tronco comune, lunghezza degli stent) fornisce un quadro solo parziale e probabilmente non basta da sola a commissionare un paziente a una DAPT prolungata. In questo momento storico, a mio avviso, anche alla luce del progresso dei materiali cui accennavo, il rischio emorragico deve avere la prevalenza in un ipotetico algoritmo decisionale che porti a decidere sulla durata della DAPT.
Un dato interessante che si legge nel vostro studio è come la durata della DAPT fosse influenzata più dal periodo di arruolamento che da fattori clinici: prima del 2015 la maggior parte dei pazienti arruolati veniva trattata con DAPT prolungata (probabilmente sull’onda degli studi DAPT e PEGASUS), mentre dopo il 2015 prevaleva la DAPT di durata intermedia o abbreviata (sulla base di studi più recenti che hanno tuttavia arruolato pazienti senza distinzione del quadro clinico iniziale). Come deve comportarsi il cardiologo clinico che appare talora sconcertato da informazioni spesso contrastanti quando deve raccomandare la durata della DAPT a un paziente sottoposto a impianto di DES in biforcazione (o a PCI complessa)?
Esatto, questa è un’osservazione molto interessante e devo onestamente ringraziare uno dei revisori dell’articolo che ci ha suggerito di condurre un’analisi aggiuntiva sulla base dell’arco temporale di arruolamento. Credo che quanto emerso sia il frutto dell’iniziale tendenza dei cardiologi a scotomizzare, in qualche modo, gli eventi emorragici e temere in modo incondizionato soltanto le recidive ischemiche. Per fortuna nel tempo si è sviluppato un filone di ricerca dedicato ai pazienti ad alto rischio emorragico che, come dicevo, ha drasticamente ridimensionato la sicurezza con cui eravamo soliti prescrivere terapie antiaggreganti di lunga durata. Credo tuttavia che, attualmente, ci sia un sottile rischio di sfociare nell’estremo opposto, ovvero destinare i pazienti a un undertreatment per la paura percepita degli eventi emorragici. La domanda non è di facile risposta. Quello di cui sono sicuro sulla base di interessanti studi pubblicati è che non bisogna lasciarsi guidare solo dall’istinto clinico, sia nella stima del rischio ischemico, che del rischio emorragico. È dimostrato che la percezione soggettiva del clinico è spesso molto diversa dal rischio reale del paziente. Per far fronte a questo problema sono stati sviluppati degli score che possono aiutare ad “oggettivare” il rischio del paziente di avere delle recidive ischemiche o delle problematiche emorragiche e anche il nostro gruppo ha dato un contributo in tal senso con lo sviluppo di uno score basato su un algoritmo di intelligenza artificiale. Per restare nell’ambito dello studio in oggetto mi preme ribadire, ancora una volta, quanto emerso dai risultati e far notare che i pazienti con CCS e ACS sono pazienti fondamentalmente diversi, con una malattia aterosclerotica diversa e che pertanto il profilo di rischio clinico oltre che procedurale probabilmente nel futuro acquisirà un ruolo sempre maggiore nella scelta della durata e intensità terapia antiaggregante.
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