Dual antiplatelet therapy duration after percutaneous coronary intervention in high bleeding risk: a meta-analysis of randomized trials.

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Abstract

Aims: The optimal duration of dual antiplatelet therapy (DAPT) after percutaneous coronary intervention (PCI) in patients at high bleeding risk (HBR) is still debated. The current study, using the totality of existing evidence, evaluated the impact of an abbreviated DAPT regimen in HBR patients.

Methods and results: A systematic review and meta-analysis was performed to search randomized clinical trials comparing abbreviated [i.e. very-short (1 month) or short (3 months)] with standard (≥6 months) DAPT in HBR patients without indication for oral anticoagulation. A total of 11 trials, including 9006 HBR patients, were included. Abbreviated DAPT reduced major or clinically relevant nonmajor bleeding [risk ratio (RR): 0.76, 95% confidence interval (CI): 0.61-0.94; I2=28%], major bleeding (RR: 0.80, 95% CI: 0.64-0.99, I2=0%), and cardiovascular mortality (RR: 0.79, 95% CI: 0.65-0.95, I2=0%) compared with standard DAPT. No difference in all-cause mortality, major adverse cardiovascular events, myocardial infarction, or stent thrombosis was observed. Results were consistent, irrespective of HBR definition and clinical presentation.

Conclusion: In HBR patients undergoing PCI, a 1 or 3 month abbreviated DAPT regimen was associated with lower bleeding and cardiovascular mortality, without increasing ischaemic events, compared with a ≥6-month DAPT regimen.


Intervista a Francesco Costa

Dipartimento di Scienze Biomediche e Odontoiatriche e di Imaging Morfologico e Funzionale, Università di Messina, A.O.U. Policlinico “G. Martino”, Messina

Dottor Costa quali sono i dati salienti della vostra metanalisi?
Si tratta di una meta-analisi focalizzata esclusivamente su pazienti a elevato rischio emorragico (HBR) e include tutti gli studi clinici randomizzati che abbiano assegnato una durata abbreviata (3 mesi o meno) o standard (6 mesi o più) di doppia terapia antiaggregante (DAPT) dopo stenting coronarico. Grazie alla collaborazione degli Principal Investigators di questi 11 trial, abbiamo ottenuto dati originali riguardanti questo sottogruppo di pazienti a elevato rischio emorragico, nominati attraverso due definizioni standardizzate: un PRECISEDAPT score maggiore o uguale a 25 punti, o un ARC-HBR con almeno 2 criteri minori o 1 criterio maggiore. Un totale di 9.006 pazienti HBR sono stati inclusi, e rappresenta la più grande fonte di dati randomizzati su pazienti a elevato rischio emorragico. In questa popolazione abbiamo osservato che una DAPT abbreviata era associata a una riduzione significativa del 24% di tutti gli eventi emorragici e del 20% degli eventi emorragici maggiori, senza osservare un eccesso di eventi ischemici. In più, una DAPT abbreviata ha ridotto in maniera significativa del 21% la morte cardiovascolare in questa categoria di pazienti. Data la possibilità di poter accedere a ulteriori dati dei pazienti, messi a disposizione dai Principal Investigators, abbiamo potuto eseguire delle ulteriori analisi di sottogruppo che hanno confermato come, nei pazienti HBR, una DAPT abbreviata aveva un impatto simile indipendentemente dalla presentazione clinica con sindrome coronarica acuta o cardiopatia ischemica cronica, un determinante fondamentale nella scelta della durata della DAPT. Questi risultati ci hanno portato a concludere che in pazienti con alto rischio emorragico, identificati attraverso delle definizioni standardizzate e riproducibili, la durata della DAPT ideale dovrebbe essere abbreviata a 1 o 3 mesi dopo l’impianto di uno stent coronarico. Ci aspettiamo che i dati del nostro lavoro possano informare le Linee Guida internazionali riguardo la durata ottimale della terapia antiaggregante in pazienti a elevato rischio emorragico.

Nella vostra analisi i pazienti con sindrome coronarica acuta (ACS) hanno avuto un beneficio analogo dalla “short DAPT” rispetto a quello osservato nei pazienti con sindrome coronarica cronica. Tuttavia, solo tre dei dodici studi da voi considerati hanno arruolato esclusivamente pazienti ACS. In altri studi i pazienti STEMI venivano esclusi o venivano arruolate solo “low risk” ACS. Pensa che i vostri dati possano essere estesi “tout court” anche a questa tipologia di pazienti o crede che ci debba essere maggiore cautela nel prescrivere una “short DAPT” in presenza di ACS?
Esattamente. Come evidenziato nel punto precedente, credo che il punto di forza di questa analisi sia quello di poter ottenere i dati di questo sottogruppo (anche non precedentemente pubblicati) da tutti gli studi anche se secondo il loro design non avevano arruolato esclusivamente pazienti ACS, cosa che non sarebbe stata possibile senza l’aiuto e la collaborazione di tutti i Principal Investigators degli 11 studi clinici inclusi. Questo ci ha permesso, quindi, di ottenere i dati dei pazienti HBR con ACS in 5.182 pazienti (1.358 erano pazienti con STEMI, mentre gli STEMI erano totalmente esclusi in 2/11 trial). Abbiamo osservato come l’impatto della DAPT abbreviata era consistente indipendentemente alla presentazione clinica, senza nessuna evidenza di un aumento degli eventi ischemici anche nei pazienti con ACS. Già in una analisi precedente avevamo osservato che una DAPT prolungata ha la possibilità di prevenire gli eventi ischemici secondari solo nei pazienti che non avessero quelle determinate caratteristiche di elevato rischio emorragico, anche in presenza di un elevato rischio ischemico ed elevata complessità della procedura mentre, in presenza di criteri HBR, una DAPT prolungata aumentava solo gli eventi emorragici senza avere alcun beneficio (Costa et al. JACC 2019). Questo è probabilmente legato al netto miglioramento delle tecnologie utilizzate e alla qualità degli stent coronarici, con il rischio di stent thrombosis nettamente ridotto rispetto alle prime iterazioni dei device. In questo contesto, quindi, la terapia antitrombotica, considerata come trattamento di prevenzione secondaria vascolare, ha la possibilità di proteggere il paziente solo in quei casi in cui il rischio di essere danneggiati dagli effetti collaterali è basso. Infatti, rispetto ad altri tipi di trattamenti di prevenzione secondaria nell’ACS, come le statine e la colchicina per esempio, i farmaci antitrombotici aumentano il rischio di eventi emorragici, con un impatto tangibile sulla sopravvivenza dei pazienti.

Il dato relativo alla riduzione di mortalità cardiovascolare nei pazienti randomizzati a ”short DAPT” è sicuramente rilevante. Tuttavia non si accompagna ad analoga riduzione di mortalità per ogni causa. Quali possono esserne i motivi?
È un’ottima domanda, estremamente interessante a cui non sono sicuro possiamo dare una risposta conclusiva. Rispetto alla mortalità cardiovascolare, la mortalità per tutte le cause aveva un intervallo di confidenza molto più ampio, non permettendo di osservare un segnale per questo endpoint. La morte per tutte le cause (che include la morte cardiovascolare e la morte non cardiovascolare, a sua volta dovuta a molteplici cause quali l’infezione, neoplasia, trauma, incidenti etc.) è un endpoint crudo e aspecifico, che verosimilmente, spesso, non ha la possibilità di essere influenzato direttamente dal tipo di terapia assegnata (il cosiddetto rumore o “noise” di fondo che si contrappone al segnale in uno studio clinico). Il basso signalto-noise ratio in questo tipo di eventi potrebbe giustificare l’allargamento degli intervalli di confidenza che non ci permette, con questa numerosità campionaria, di osservare una simile riduzione della mortalità globale. Questo è particolarmente vero in una popolazione, quella HBR, che ha già di per sè un rischio di mortalità più alto rispetto alla popolazione non-HBR, quindi il signal-to-noise ratio è ancora più basso. Una lettura estremamente interessante su questa controversia negli studi clinici può essere trovata qui: Sasieni PD et al. Circulation 2017, https://doi.org/10.1161/CIRCULATIONAHA.116.023359). Tornando al nostro lavoro, credo che la riduzione della mortalità cardiovascolare osservata sia plausibile e supportata da altri studi precedenti in letteratura. Una DAPT prolungata può provocare sanguinamenti fatali in organi critici, come l’emorragia intracranica, che viene aggiudicata come una morte cardiovascolare nei trial clinici. Inoltre, i sanguinamenti possono avere un impatto sul sistema cardiovascolare attraverso molteplici vie indirette, giustificando una mortalità cardiovascolare aumentata: il sanguinamento riduce la capacità di trasporto e di distribuzione dell’ossigeno nel sangue, causando ipoperfusione miocardica e precipitando l’ischemia miocardica, ed è anche associato a un aumento dell’attivazione e dell’aggregabilità delle piastrine, che potrebbero predisporre a eventi trombotici coronarici. Nello studio CHARISMA, una DAPT prolungata in pazienti asintomatici era associata sia a un aumentato rischio di infarto miocardico che di morte cardiovascolare. È importante notare che gli eventi di sanguinamento potrebbero avere un impatto negativo sull’aderenza al trattamento farmacologico, con l’interruzione improvvisa di trattamenti chiave come gli agenti antiaggreganti piastrinici, i β-bloccanti e le statine che potrebbero comportare complicazioni ischemiche. Lo studio PARIS ha dimostrato che una sospensione precoce degli agenti antiaggreganti piastrinici non era associata a un eccesso di eventi ischemici quando la decisione era coordinata dal medico curante, ma quando la DAPT veniva interrotta improvvisamente, come nel caso di sanguinamento maggiore, si osservava un aumento drammatico degli eventi ischemici coronarici. Questo andamento era evidente sia nei pazienti ad alto rischio di sanguinamento che in quelli a basso rischio. Infine, un eccessivo trattamento antitrombotico nei pazienti ad alto rischio di sanguinamento potrebbe potenzialmente scatenare eventi cardiovascolari in più distretti attraverso l’emorragia della placca aterosclerotica.

Pensa che nel prescrivere una durata di DAPT si debba tener conto anche del tipo di drug-eluting stent (DES) che si è impiantato?
I DES disponibili oggi hanno raggiunto un livello di sicurezza estremamente elevato, tanto che negli ultimi anni il benchmark per definire l’affidabilità di queste piattaforme è diventata la possibilità di poter abbreviare sempre di più la durata della DAPT senza pagare un prezzo in termini di stent thrombosis. A oggi la maggior parte degli stent hanno studi di alto livello che ne supportano in scheda tecnica una durata minima raccomandata di DAPT di 1 mese, quindi credo che il tipo di stent impiantato abbia ormai assunto una rilevanza minore nella scelta terapeutica (più paziente e meno stentcentrica). Rimane il fatto che prima di dichiarare un “effetto di classe” per tutti i dispositivi in commercio è sempre necessario dimostrare l’efficacia e la sicurezza dei singoli device in rigorosi trial clinici. In futuro sarà interessante vedere come le nuove piattaforme, e il ritorno del concetto degli stent totalmente riassorbibili, possa avere un impatto su questi nuovi standard di DAPT molto abbreviata.

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