Abstract
Background: There is no consensus on the benefit of red blood cell (RBC) transfusion after transcatheter aortic valve replacement.
Methods: The multicenter Transfusion Requirements in Transcatheter Aortic Valve Implantation (TRITAVI) registry retrospectively included patients after transfemoral transcatheter aortic valve replacement; propensity score-matching identified pairs of patients with and without RBC transfusion. The primary end-point was 30-day mortality; nonfatal myocardial infarction, cerebrovascular accident, and stage 2 to 3 acute kidney injury at 30 days were secondary end-points. We repeated propensity score-matching according to the hemoglobin nadir, hemoglobin drop, and in the subgroup of uncomplicated patients, without major vascular complications or major bleeding.
Results: Among 2.587 patients, RBC transfusion was administered in 421 cases (16%). The primary end-point occurred in 104 (4.0%) patients, myocardial infarction in 9 (0.4%), cerebrovascular accident in 38 (1.5%), and acute kidney injury in 125 (4.8%) cases. In the 842 propensity-matched patients, RBC transfusion was associated with increased mortality (hazard ratio, 2.07 [95% CI, 1.06–4.05]; p=0.034) and acute kidney injury (hazard ratio, 4.35 [95% CI, 2.21–8.55]; p<0.001). Interaction testing between RBC transfusion and mortality was not statistically significant in the above mentioned subgroups, and such association was not documented in the corresponding propensity score-matched cohorts. In the multivariable. Cox proportional hazards regression model, major vascular complications (p=0.044), major bleeding (p=0.041), and RBC transfusion (p=0.048) were independent correlates of 30-day mortality.
Conclusions: RBC transfusion correlates with increased mortality and acute kidney injury early after transcatheter aortic valve replacement and is an independent predictor of 30-day mortality, irrespective of periprocedural major bleeding and vascular complications.
Intervista a Marco Zimarino
Università degli Studi G. d’Annunzio, Chieti e Pescara
Dottor Zimarino, qual è il take home message del vostro studio?
Il dato principale che emerge dal nostro lavoro è questo: l’utilizzo di trasfusioni dopo TAVI è associato a un significativo incremento della mortalità a 30 giorni dalla procedura; inoltre, i pazienti sottoposti a trasfusioni presentano un rischio significativamente maggiore di ictus non fatale e di sviluppare insufficienza renale acuta. Questo dato è stato confermato nella popolazione di pazienti “propensity-matched”, ed è indipendente dalla presenza di sanguinamenti maggiori o di complicanze vascolari. In letteratura erano da tempo emerse delle “criticità” su quale fosse il reale impatto delle trasfusioni sull’outcome dei pazienti sottoposti a TAVI, e diversi lavori ne dimostravano l’associazione con l’aumentata mortalità. Se da un lato i sanguinamenti maggiori sono complicanze frequenti della procedura, e quindi la trasfusione diventa una manovra salva-vita da attuare in queste situazioni, dall’altro è evidente come, in altre occasioni, vengano effettuate con indicazioni meno chiare. I dati del registro TRITAVI confermano quelle che erano le iniziali evidenze della letteratura, per cui rimane controverso il ruolo delle trasfusioni nei pazienti sottoposti a TAVI. Il “take home message” del nostro studio è che l’utilizzo di emoderivati deve essere ponderato e limitato a quelle situazioni in cui rappresentino una procedura imprescindibile, salva-vita (ad esempio nel caso di un sanguinamento di entità importante in sede di accesso vascolare); devono essere, invece, evitate in circostanze di stabilità clinica, soprattutto in quei pazienti considerati “non complicati”, in cui i nostri dati confermano un ruolo sfavorevole delle trasfusioni.
I vostri risultati mostrano come non ci fosse alcuna interazione significativa tra l’effetto prognosticamente sfavorevole della trasfusione e la presenza di complicanze vascolari maggiori o di bleeding maggiore (che erano significativamente più rappresentati nel gruppo dei pazienti trasfusi). Peraltro complicanze vascolari, bleeding maggiore e riduzione ampia di emoglobina spesso coesistono, così che gli effetti negativi si amplificano nel singolo paziente, mettendolo a grave rischio. In questi non rari casi, analizzare il ruolo prognostico della trasfusione appare piuttosto arduo. Qual è la sua opinione?
L’indipendenza tra l’outcome sfavorevole legato all’utilizzo di trasfusioni e la presenza di complicanze vascolari o sanguinamenti maggiori, è uno dei dati più importanti che emerge dal nostro registro. Inoltre, nel modello di analisi multivariata, i sanguinamenti maggiori, le complicanze vascolari e le trasfusioni, sono variabili indipendentemente associate ad aumento del rischio di mortalità a 30 giorni. La gestione di quei pazienti, in cui le condizioni coesistono è inevitabilmente complessa; in questo contesto, probabilmente, le trasfusioni rappresentano un marker di un decorso clinico complicato, identificando una popolazione di per sé associata a una prognosi negativa. Penso sia fondamentale ridurre l’impatto dei citati fattori prognostici sfavorevoli, tramite un’attenta gestione di tutti gli aspetti intra e peri-procedurali. Evitare accuratamente le complicanze vascolari, scegliendo meticolosamente i migliori accessi e le modalità di chiusura, e gestire in maniera ottimale la terapia antitrombotica, anche alla luce delle recenti evidenze sulla duplice terapia antiaggregante (dati derivanti dal trial Popular TAVI), sono accorgimenti che portano dei benefici in termini di outcome e riducono la necessità di trasfusioni.
A questo proposito, i vostri dati aggiustati per propensity score matching mostrano come, nei pazienti con procedure non complicate, non vi sia alcuna differenza nell’outcome a seconda che i pazienti fossero stati o meno trasfusi. Quindi la differenza di outcome (tra pazienti trasfusi e non trasfusi) si manifesta solo nei pazienti con procedure complicate, in cui peraltro la cascata degli eventi è spesso di complessa gestione clinica. È esatta questa interpretazione?
All’interno della sottopopolazione di pazienti non complicati l’utilizzo di trasfusioni si associa comunque a un aumento di mortalità a 30 giorni; tale associazione scompare nel sottogruppo di pazienti “matched”. L’outcome sovrapponibile tra pazienti trasfusi e non, all’interno di questo sottogruppo, potrebbe essere spiegato sia dalla ridotta numerosità della popolazione, sia dall’impatto di fattori confondenti non noti o non rilevati (come ad esempio la fragilità del paziente). Pertanto, anche nei pazienti sottoposti a procedure non complicate, i dati derivanti dal nostro registro sostengono una strategia che limiti l’utilizzo delle trasfusioni. Se, come illustrato precedentemente, è possibile interpretare la trasfusione come un marker di una condizione sfavorevole nel paziente “complicato”, nel paziente in cui non avvengono sanguinamenti né complicanze vascolari la stessa rappresenta un vero e proprio mediatore di danno.
Interessante il dato di un effetto prognosticamente sfavorevole della trasfusione solo quando l’Hb è superiore a 9.5 g/dL o inferiore a 7.5 g/dL. Le curve aggiustate per propensity score matching sono simili, ma perdono di significatività, verosimilmente per la minore numerosità di pazienti. L’interpretazione è un po’ difficile tuttavia: se è corretto astenersi dal trasfondere se l’Hb è superiore a 9.5 g/dL, come non trasfondere quando l’Hb è inferiore a 7.5 g/dL? Sulla base della sua esperienza e di questi dati, quali sono le sue raccomandazioni?
In letteratura non vi è un’opinione condivisa in merito a quale sia la migliore strategia di trasfusione da adottare nei pazienti sottoposti a TAVI; le Linee Guida americane ed europee, inoltre, non affrontano il problema. È utile ricordare che, all’interno di setting clinici diversi, l’utilizzo di una soglia di trasfusione “restrittiva” si è mostrata ugualmente sicura rispetto all’utilizzo di una soglia più permissiva (cito ad esempio il Reality Trial, che ha randomizzato pazienti con infarto miocardico acuto e anemia, oppure il Trics Trial, in cui sono stati valutati pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca). All’interno di queste evidenze vanno inseriti i nostri dati; la mia raccomandazione è quella di effettuare delle valutazioni “caso per caso”; in altre parole è importante contestualizzare il dato di emoglobina. Capire se ci sono state importanti perdite ematiche intraprocedurali, se ci sono segni di ridotta ossigenazione tissutale, oppure il quadro laboratoristico di anemia è secondario esclusivamente a bassi livelli di partenza eventualmente associati a modifiche dello stato volemico del paziente. Queste raccomandazioni valgono, soprattutto, per quei pazienti con livelli di emoglobina <7.5 g/dL; possiamo trovarci davanti un paziente “fragile”, con nota anemia a eziologia multifattoriale, in cui la trasfusione esercita esclusivamente un’azione deleteria, oppure un paziente con un sanguinamento maggiore, in cui la trasfusione è una procedura salva-vita. In questo modo riusciamo a selezionare i pazienti che davvero possono beneficiare di una trasfusione, evitando di mettere in atto una manovra non solamente futile, ma anche pericolosa.
Ritiene che per fare maggiore chiarezza sia necessario uno studio randomizzato?
Assolutamente. In questa maniera verrà confermata l’associazione tra trasfusioni e outcome sfavorevole nei pazienti sottoposti a TAVI. È bene ricordare che, essendo il TRITAVI un registro osservazionale, non possono essere sottovalutati i limiti insiti nella metodica stessa (come il bias dei dati mancanti, oppure, il mancato bilanciamento delle caratteristiche basali tra i gruppi di pazienti), nonostante l’utilizzo di accorgimenti per ridurne l’impatto. Un trial clinico randomizzato in cui si confrontano diverse strategie terapeutiche, inoltre, può risolvere il dilemma su quale sia il livello di emoglobina ideale al di sotto del quale effettuare trasfusioni.
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