shock cardiogeno

Supporto circolatorio meccanico con pompa a flusso microassiale in pazienti STEMI in shock cardiogeno: una soluzione vincente?    

Lo shock cardiogeno è una conseguenza molto temibile dell’infarto STEMI: si verifica in circa l’8% dei pazienti e ha tuttora una mortalità di circa il 50% . Gli studi sinora effettuati, suglieffetti dell’assistenza circolatoria meccanica, hanno dato risultati clinici deludenti. Infatti, sia la contropulsazione aortica che l’ECMO non si sono mostrati efficaci nel migliorare l’outcome di questi pazienti…

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Supporto circolatorio meccanico con ECMO in pazienti con infarto miocardico in shock cardiogeno: inefficace e non privo di complicanze. I risultati dello studio ECLS-SHOCK.

Lo shock cardiogeno rappresenta la più frequente causa di mortalità nei pazienti con infarto acuto del miocardio. Il tasso di mortalità è tuttora molto elevato, tra il 40% e 50% dei casi, e non si è modificato nel corso degli ultimi anni nonostante i progressi ottenuti nel trattamento delle sindromi coronariche acute. Recentemente nella pratica clinica si è sempre più diffuso il ricorso all’ECMO , che fornisce un supporto sia circolatorio che respiratorio al paziente. L’efficacia e la sicurezza di questa procedura, tuttavia, non è stata studiata in un trial randomizzato di ampie dimensioni.

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Diagnosis and Treatment of Acute Myocarditis: A Review

Ogni anno, da 4 a 14 ogni 100.000 soggetti presenta una miocardite acuta. Circa il 75% dei pazienti ricoverati per miocardite ha un decorso ospedaliero privo di complicanze con una mortalità praticamente nulla. Il rimanente 25%, che presenta sintomi di insufficienza cardiaca o aritmie minacciose, ha una mortalità ospedaliera (o necessità di avere un trapianto cardiaco) del 12%. La presenza di fibrosi del setto alla risonanza magnetica si associa a un più alto rischio di morte improvvisa, arresto cardiaco, necessità di impianto di defibrillatore, ospedalizzazione per scompenso (16% versus 8%). I pazienti con una presentazione complicata (shock cardiogeno, scompenso, aritmie severe, blocco AV avanzato) necessitano di una biopsia miocardica per confermare la diagnosi ed escludere una miocardite a rischio elevato, come quella a cellule giganti. I criteri istologici per la diagnosi di miocardite (Dallas criteria) consistono nella triade di infiltrazione immunitaria del miocardio, morte dei miociti per causa non ischemica, presenza di cellule immunitarie adiacenti ai miociti morti. La Società Europea di Cardiologia sottolinea, per la diagnosi bioptica di miocardite, la necessità della presenza alla biopsia miocardica di almeno 14/mm2 di cellule infiammatorie CD45+ e 7/mm2 cellule infiammatorie tipo CD3+T. La miocardite può essere classificata come linfocitica (la più frequente), eosinofilica, a cellule giganti (caratterizzata da infiltrati di linfociti, cellule multinucleate – appunto dette cellule giganti) o da sarcoidosi cardiaca, a seconda della dominanza del tipo di cellule presenti.

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Confronto dell’outcome clinico e dei costi associati all’utilizzo di device microassiale ventricolare sinistro vs contropulsatore aortico nei pazienti con infarto miocardico complicato da shock cardiogeno

Il trattamento dello shock cardiogeno è un ambito della cardiologia in cui i progressi degli ultimi decenni sono stati modesti. A tutt’oggi, l’utilizzo dei dispositivi di assistenza ventricolare non è standardizzato e gli studi randomizzati, che non sono affatto numerosi, non sono riusciti a mostrarne un beneficio. Nel caso di infarto miocardico con shock cardiogeno (AMICS), il contropulsatore aortico (IABP) è il dispositivo di riferimento (pur con una raccomandazione di livello basso, classe IIb nelle Linee Guide ESC) tuttavia il suo utilizzo di routine è chiaramente controindicato dalle medesime Linee Guide (classe III).

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Prognosi a lungo termine dopo arresto cardiaco extraospedaliero nei pazienti che sopravvivono alla fase acuta.

La sopravvivenza dei pazienti con arresto cardiaco extraospedaliero (OHCA) è piuttosto modesta e solo circa la metà riesce a superare la fase ospedaliera ed essere dimessa in vita. Tra i fattori che determinano un buon esito, importanti sono la prontezza delle manovre di rianimazione, l’età del paziente, il tipo di ritmo che ha scatenato l’arresto e la cura ospedaliera ricevuta. Mancano informazioni, tuttavia, sia sull’outcome che sui fattori prognostici a lungo termine, in particolare oltre il primo anno di follow-up, nei pazienti che riescono a sopravvivere alla fase acuta.

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