Infarto miocardico di tipo 1 e 2. Proposta di una nuova classificazione

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Indice

Inquadramento

Come è noto la Quarta Definizione Universale di Infarto Miocardico (MI) prevede 5 diversi tipi di MI, di cui il tipo 1 e 2 sono i più comuni[1]Thygesen K, Alpert JS, Jaffe AS,et al. Executive Group on behalf of the Joint European Society of Cardiology (ESC)/ American College of Cardiology (ACC)/American Heart Association (AHA)/World Heart … Continua a leggere. La distinzione è basata sulla fisiopatologia dell’evento: MI tipo 1 (T1MI) è secondario a una occlusione di un vaso coronarico quale complicanza di una rottura o erosione di placca, mentre MI di tipo 2 (T2MI) è secondario a uno squilibrio tra apporto e consumo di O2, in genere per tachiaritmia, anemizzazione, ipotensione o ipossiemia. Tra i T2MI sono stati inclusi anche MI per dissezione spontanea, spasmo coronarico prolungato, embolia coronarica, eventi peraltro affini, per meccanismo fisiopatologico, a T1MI. È stata, quindi, proposta una riclassificazione[2]Thygesen K, Alpert JS, White HD; Joint ESC/ACC/AHA/WHF Task Force for the Redefinition of Myocardial Infarction. Universal definition of myocardial infarction. Eur Heart J 2007;28:2525–2538; … Continua a leggere in cui queste ultime condizioni sono incluse tra i T1MI, mentre i T2MI sono stati distinti tra quelli in cui vi è una coronaropatia sottostante (T2AMI) da quelli in cui essa non è presente (T2BMI).

Lo studio in esame

Gli Autori hanno considerato una casistica di 1.364 MI, di cui 1.116 T1MI (81.8%), e 248 (18.2%) T2MI. Con la nuova proposta di riclassificazione, 17 pazienti (con dissezione spontanea, embolia coronarica o vasospasmo) sono stati riclassificati come T1MI. Tra i T2MI, 104 (45%) avevano una coronaropatia (T2AMI), assente invece in 127 pazienti (55%), classificati come T2BMI. A due anni di follow-up la mortalità globale risultava significativamente superiore: 25%, (95% CI, 17.7%–34.1%) in T2AMI versus 7.9% (95% CI, 4.3%–13.9%) in T2BMI. Anche l’incidenza di un nuovo infarto risultava più elevata: 10.6% (95% CI, 6.0%–18.0%) in T2AMI versus 2.4% (95% CI, 0.8%–7.6%) in T2BMI (Tabella).

Take home message

La proposta di riclassificazione di MI comporta uno spostamento del 7% da T2MI a T1MI. I pazienti T2AMI (con coronaropatia associata) hanno una mortalità a 2 anni tre volte maggiore dei pazienti T2BMI (senza coronaropatia).

Commento

Questa analisi, per quanto condotta in una casistica limitata, presenta molti pregi. La proposta di riclassificazione appare più logica dal punto di vista fisiopatologico, benchè MI secondari a dissezione spontanea, embolismo o vasospasmo rappresentino un numero relativamente esiguo di casi. La presenza di coronaropatia modifica, sostanzialmente, la prognosi dei T2MI e la sua ricerca appare, quindi, sostanziale per una migliore definizione diagnostica e prognostica. Considerata la mortalità a due anni, molto elevata in presenza di coronaropatia, sono assolutamente necessari studi prospettici che valutino in questa popolazione, gli effetti a distanza di interventi di rivascolarizzazione miocardica e di una più intensa prevenzione secondaria.

L’opinione di Maddalena Lettino

UOC Cardiologia, Dipartimento Cardio-toraco-vascolare, H San Gerardo, ASST Monza, Monza

La definizione universale di infarto miocardico, proposta nella sua prima edizione del 2007 dalla collaborazione delle maggiori società scientifiche internazionali, ha rappresentato il tentativo più ambizioso di mettere ordine nella diagnosi di una condizione clinica che tenesse conto sia della fisiopatologia della malattia che della disponibilità di biomarcatori quali le troponine, dotate di elevata sensibilità e specificità per l’identificazione del danno miocardico[3]Thygesen K, Alpert JS, White HD; Joint ESC/ACC/AHA/WHF Task Force for the Redefinition of Myocardial Infarction. Universal definition of myocardial infarction. Eur Heart J 2007;28:2525–2538; … Continua a leggere. Declinata nelle sue varie edizioni, fino a quella cui si riferisce l’articolo di Shoepfer et al., è stata cruciale per interpretare i risultati dei trial clinici e per aggiudicare gli eventi che hanno sancito l’efficacia dei trattamenti o delle procedure interventistiche nei pazienti con cardiopatia ischemica acuta. Una sua intrinseca debolezza è sempre stata la definizione di infarto di tipo 2, una sorta di definizione “in negativo” che ha raccolto sotto il proprio “cappello” tutto ciò che non potesse essere considerato aterotrombosi o che non si configurasse come la conseguenza di una procedura di rivascolarizzazione, includendo inevitabilmente anche condizioni rare benchè sempre più descritte, come la dissezione coronarica spontanea, il vasospasmo o l’occlusione embolica di una di esse. Gli Autori dello studio hanno ipotizzato che, proprio queste situazioni, potessero essere considerate fisiopatologicamente più simili a una occlusione coronarica trombotica e hanno riproposto una revisione della classificazione che le includesse nella definizione di infarto di tipo 1. La loro proposta più interessante è stata, però, la rivisitazione della definizione dell’infarto di tipo 2, distinguendo, al suo interno, forme associate a una malattia coronarica aterosclerotica senza trombosi (infarto di tipo 2A) e forme nelle quali le coronarie sono apparentemente indenni (infarto di tipo 2B). L’applicazione della nuova classificazione alla popolazione dello studio APACE ha infatti suggerito un ruolo rilevante della malattia aterosclerotica nel condizionare la prognosi dei pazienti con infarto acuto, a prescindere dalla sua associazione con una trombosi coronarica acuta o con la discrepanza acuta tra offerta e richiesta di ossigeno da parte del tessuto cardiaco. Entrambe queste condizioni si sono infatti associate a una mortalità totale e a una incidenza di eventi avversi cardiovascolari statisticamente superiore a quella di soggetti con coronarie indenni, che pur hanno sviluppato una necrosi miocardica da discrepanza. Il dato non sorprende se si considera la natura sistemica dell’aterosclerosi e l’inevitabile associazione di quest’ultima con la disfunzione di tutto l’endotelio vascolare e di conseguenza con la probabilità che i danni a carico degli organi vitali possano andare oltre l’evento acuto e condizionare la prognosi a medio e lungo termine[4]Davignon J and Ganz P. Role of endothelial dysfunction in atherosclerosis. Circulation 2004; 109: III27-III32. La sfida degli studi futuri sarà quella di confermare il dato prospetticamente e di valutare l’impatto che le terapie “anti[1]aterosclerotiche” potranno avere nei pazienti con infarto di tipo 2A, analogamente a quanto già documentato nelle più comuni sindromi coronariche acute con infarto di tipo 1.

Bibliografia

Bibliografia
1 Thygesen K, Alpert JS, Jaffe AS,et al. Executive Group on behalf of the Joint European Society of Cardiology (ESC)/ American College of Cardiology (ACC)/American Heart Association (AHA)/World Heart Federation (WHF) Task Force for the Universal Definition of Myocardial Infarction. Fourth Universal Definition of Myocardial Infarction. Circulation. 2018;138:e618–e651. doi:10.1161/CIR.0000000000000617.
2, 3 Thygesen K, Alpert JS, White HD; Joint ESC/ACC/AHA/WHF Task Force for the Redefinition of Myocardial Infarction. Universal definition of myocardial infarction. Eur Heart J 2007;28:2525–2538; Circulation 2007;116:2634–2653; J Am Coll Cardiol 2007;50:2173–2195.
4 Davignon J and Ganz P. Role of endothelial dysfunction in atherosclerosis. Circulation 2004; 109: III27-III32

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