Association of sex with outcome in elderly patients with acute coronary syndrome undergoing percutaneous coronary intervention.

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Abstract

Background: Worse outcomes have been reported for women, compared with men, after an acute coronary syndrome (ACS). Whether this difference persists in elderly patients undergoing similar invasive treatment has not been studied. We investigated sexrelated differences in 1-year outcome of elderly acute coronary syndrome patients treated by percutaneous coronary intervention (PCI).

Methods: Patients 75 years and older successfully treated with PCI were selected among those enrolled in 3 Italian multicenter studies. Cox regression analysis was used to assess the independent predictive value of sex on outcome at 12-month follow-up.

Results: A total of 2.035 patients (44% women) were included. Women were older and most likely to present with ST-elevation myocardial infarction (STEMI), diabetes, hypertension, and renal dysfunction; men were more frequently overweight, with multivessel coronary disease, prior myocardial infarction, and revascularizations. Overall, no sex disparity was found about all-cause (8.3% vs 7%, P=.305) and cardiovascular mortality (5.7% vs 4.1%, P=113). Higher cardiovascular mortality was observed in women after STEMI (8.8%) vs 5%, P=.041), but not after non ST-elevation-ACS (3.5% vs 3.7%, P=.999). A sensitivity analysis excluding patients with prior coronary events (N=1.324, 48% women) showed a significantly higher cardiovascular death in women (5.4% vs 2.9%, P=.025). After adjustment for baseline clinical variables, female sex did not predict adverse outcome.

Conclusions: Elderly men and women with ACS show different clinical presentation and baseline risk profile. After successful PCI, unadjusted 1-year cardiovascular mortality was significantly higher in women with STEMI and in those with a first coronary event. However, female sex did not predict cardiovascular mortality after adjustment for the different baseline variables.


Intervista a Roberta De Rosa

Ospedale Universitario “San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona”, Salerno

Dottoressa De Rosa, qual è il take home message dello studio?
In una popolazione selezionata di pazienti anziani (definiti come pazienti di età pari o superiore a 75 anni) con sindrome coronarica acuta e trattati efficacemente con rivascolarizzazione coronarica percutanea, il sesso femminile non rappresenta un predittore indipendente di mortalità sia nel breve che nel lungo termine, nonostante si siano osservate in tale popolazione caratteristiche significativamente differenti sia nella presentazione clinica che nel profilo di rischio tra pazienti di sesso femminile e quelli di sesso maschile.

Nella casistica, le donne con sindrome coronarica acuta hanno un’età maggiore rispetto agli uomini e un maggior numero di fattori di rischio. Come leggere questi dati? Esiste una sorta di protezione per le donne anche nell’età avanzata per cui è necessaria la presenza di maggiori fattori di rischio rispetto agli uomini affinché la malattia coronarica si manifesti? Oppure dipende soltanto dal fatto che l’attesa di vita è maggiore per le donne e questo condiziona presentazioni in età più avanzata e quindi anche con maggiori comorbilità?
Molti studi condotti su una popolazione generale di pazienti con sindrome coronarica acuta hanno riportato un’età significativamente maggiore nelle donne rispetto agli uomini; anche nella nostra popolazione, pur esclusivamente composta da pazienti anziani, le donne erano significativamente più anziane e mostravano inoltre una prevalenza significativamente più elevata di fattori di rischio ben noti per essere predittori di prognosi infausta, quali il diabete mellito e l’insufficienza renale cronica. D’altro canto, gli uomini presentavano una storia di malattia coronarica significativamente più lunga (con maggiore prevalenza di precedenti eventi coronarici acuti e/o di rivascolarizzazione coronarica) rispetto alle donne, che invece si presentavano più spesso con un primo evento coronarico. Queste osservazioni sostengono l’ipotesi che la protezione fornita dagli estrogeni nei confronti della malattia coronarica perduri per diverse decadi dopo la menopausa. A sostegno di questa ipotesi ci sono studi di anatomia patologica che hanno dimostrato un ritardo compreso tra 10 e 15 anni nello sviluppo di malattia coronarica nelle donne rispetto agli uomini. Inoltre, il nostro gruppo ha precedentemente osservato, con lo studio LADIES ACS, una minore estensione dell’aterosclerosi coronarica nelle donne rispetto agli uomini in qualsiasi fascia di età dopo la menopausa, suggerendo quindi ulteriormente che il “vantaggio biologico” delle donne nei confronti della malattia coronarica perduri ben oltre la fine dell’età fertile. Tale vantaggio biologico non si applica, al contrario, all’insorgenza di altre importanti comorbidità quali il diabete mellito e l’insufficienza renale, che sono i reali determinanti della prognosi delle donne una volta che la malattia coronarica si sia manifestata.

Un dato importante dell’analisi è che la mortalità è analoga tra uomini e donne con sindrome coronarica acuta quando alle pazienti sono offerte le stesse procedure di riperfusione e rivascolarizzazione che sono eseguite negli uomini di pari età. Qual è il suo commento?
Sì, questo è un dato molto interessante soprattutto perché il sesso femminile è stato a lungo considerato come significativamente correlato a un outcome peggiore dopo una sindrome coronarica acuta. Tuttavia, dettagliate analisi post-hoc hanno dimostrato una significativa disparità terapeutica nei due sessi, con tassi di rivascolarizzazione inferiori e tardivi così come un minore impiego di terapie “guideline-driven” nelle donne rispetto agli uomini. Le ragioni di tali differenze sono molteplici e comprendono una maggiore prevalenza di presentazione clinica con sintomi atipici nelle donne, che può ritardare la diagnosi, e, soprattutto, l’età più avanzata e il grande numero di comorbidità riscontrati nelle donne, che vengono di conseguenza spesso considerate “troppo fragili” per tollerare una strategia invasiva. Tuttavia, sicuramente complice il progressivo miglioramento delle tecniche di rivascolarizzazione percutanea, un significativo miglioramento dell’outcome sia nel breve che nel lungo termine è stato osservato nelle donne sottoposte a terapia di rivascolarizzazione coronarica in report più recenti. Già nel 2015 il nostro gruppo ha dimostrato una inferiore mortalità cardiovascolare nelle donne con NSTE-ACS sottoposte a rivascolarizzazione precoce rispetto a quelle trattate con terapia conservativa; nello studio attuale, si evidenzia come non vi siano differenze di outcome correlate al sesso sia nel breve che nel lungo termine quando sia uomini che donne con ACS, vengono sottoposti a rivascolarizzazione coronarica. Inoltre, è importante ricordare che nel presente studio non sono state riscontrate significative differenze anche per quanto riguarda gli outcome “secondari” quali nuovo infarto miocardico non fatale, stroke, reospedalizzazione per cause cardiovascolari, trombosi dello stent e sanguinamenti. Tale risultato deve ulteriormente incoraggiare a non negare alle donne una strategia invasiva nonostante l’età avanzata e le comorbidità, adottando ovviamente allo stesso tempo tuttele misure necessarie per ridurre al minimo l’incidenza di complicanze periprocedurali, quali un oculato uso del mezzo di contrasto per diminuire l’incidenza di CIN in una popolazione con elevata prevalenza di insufficienza renale cronica, e un estensivo uso dell’approccio radiale per ridurre i sanguinamenti, la cui incidenza è notoriamente più alta nelle donne ed è collegata a un significativo peggioramento della prognosi.

Mi pare rilevante anche l’osservazione che, se si usa prevalentemente la via radiale, il bleeding procedurale non è significativamente diverso tra i pazienti dei due sessi. Quali erano le percentuali di uso della via radiale nei due gruppi?
Precisamente il 78% dei pazienti di sesso maschile e il 78.5% di quelli di sesso femminile hanno ricevuto un approccio radiale, senza differenze statisticamente significative tra i due gruppi.

I pazienti maschi avevano una coronaropatia più estesa che tuttavia non sembra avere, in questi pazienti anziani, una rilevanza prognostica come si nota invece nei pazienti più giovani. Questa differenza può suggerire trattamenti diversi per quanto riguarda la modalità di rivascolarizzazione nel paziente anziano rispetto ai pazienti più giovani, in particolare per quanto riguarda la completezza della rivascolarizzazione?
Assolutamente sì. Mentre infatti nella popolazione generale dei pazienti con ACS è stato dimostrato che la rivascolarizzazione completa si associa a un migliore outcome, compresa una minore incidenza di mortalità, rispetto al trattamento della sola lesione culprit, dati discordanti sono stati riportati in riferimento alla sola popolazione elderly. In questi pazienti, infatti, il burden residuo di malattia coronarica non trattata non sembra migliorare significativamente la stratificazione del rischio e la stima dell’outcome, che sono influenzati maggiormente da altre variabili cliniche (età, comorbidità, stato cognitivo, “frailty”) e anatomiche (burden aterosclerotico coronarico di base). Inoltre, molti pazienti anziani potrebbero perdere il beneficio di una rivascolarizzazione completa a causa di un rischio potenzialmente più elevato di complicanze periprocedurali quali ad esempio la nefropatia da contrasto. Naturalmente, data l’eterogeneità della popolazione elderly, la scelta di effettuare o meno una rivascolarizzazione coronarica completa dovrebbe essere effettuata considerando l’intero quadro clinico,anamnestico e anatomico di ogni singolo paziente.

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