Impact of biomarker type on periprocedural myocardial infarction in patients undergoing elective PCI.

Indice

Abstract

Background: Periprocedural myocardial infarction (MI) according to the Society for Cardiovascular Angiography and Interventions (SCAI) criteria has prognostic relevance among patients undergoing percutaneous coronary intervention (PCI). However, it is unclear whether the type of cardiac biomarker used for the diagnosis of periprocedural MI plays a role in terms of event frequency and outcomes.

Objectives: To compare the characteristics of SCAI periprocedural MI based on creatine kinase-myocardial band fraction (CK-MB) vs high-sensitivity cardiac troponin (hs-cTn) in patients undergoing elective PCI.

Methods and results: Between 2017 and 2021, periprocedural MI was assessed in a prospective study. The primary clinical outcome of interest was all-cause death at 1-year follow-up. A total of 1010 patients undergoing elective PCI were included. SCAI periprocedural MI based on CK-MB vs hs-cTnI occurred in 1.8 and 13.5% of patients, respectively. hs-cTnI periprocedural MI in the absence of concomitant CK-MB criteria was associated with lower rates of ancillary criteria, including angiographic, ECG, and cardiac imaging criteria. At 1-year follow-up, periprocedural MI defined by CK-MB (adjusted hazard ratio, HR, 4.27, 95% confidence intervals, CI, 1.23–14.8; P=0.022) but not hscTnI (adjusted HR 2.04, 95% CI 0.94–4.45; P=0.072) was associated with a higher risk of all-cause death. Hs-cTnI periprocedural MI was not predictive of death unless accompanied by CK-MB criteria (adjusted HR 4.64, 95% CI 1.32– 16.31; P=0.017).

Conclusion: In the setting of elective PCI, using hs-cTn instead of CK-MB resulted in a substantial increase in SCAI periprocedural MI events, which were not prognostically relevant in the absence of concurrent CK-MB elevations.


Intervista a Raffaele Piccolo

Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate, Università Federico II, Napoli

Professor Piccolo quali sono i dati salienti della vostra analisi?
Lo studio si è focalizzato sul tipo di biomarcatore utilizzato per la diagnosi di infarto miocardico periprocedurale. L’impiego diffuso delle troponine cardiache a elevata sensibilità ha consentito progressi ragguardevoli nella diagnosi precoce delle sindromi coronariche acute e ha sostituito in molti centri l’altro biomarcatore, l’isoforma MB della creatinin chinasi (CK-MB), la quale oramai non viene più richiesta al laboratorio in molti centri (anche europei). La diagnosi di infarto miocardico periprocedurale dopo angioplastica coronarica secondo i criteri SCAI, ha un notevole impatto prognostico sulla mortalità e, originariamente, si basava sulla valutazione del CK-MB (≥10xURL o ≥5xURL con sviluppo di nuove onde Q patologiche). Tuttavia, per accomodare il crescente impiego delle troponine, sono stati affiancati nuovi criteri diagnostici basati su un aumento della troponina cardiaca ≥70xURL. Il nostro studio, condotto all’Università Federico II di Napoli sotto la guida del Prof. Giovanni Esposito, ha osservato in circa 1.000 pazienti sottoposti ad angioplastica elettiva un tasso di infarto periprocedurale definito secondo criteri SCAI pari all’1.8% quando viene impiegato il CK-MB e al 13.5% quando viene impiegata la troponina a elevata sensibilità. Inoltre, a un anno di follow-up, il rischio di morte per tutte le cause era significativamente aumentato in caso di infarto miocardico periprocedurale secondo i criteri SCAI basato su CK-MB, mentre quando impiegata la troponina l’impatto prognostico dell’infarto periprocedurale era trascurabile in assenza dei concomitanti criteri basati sul CK-MB. In sintesi, lo studio ha dimostrato in una coorte di pazienti sottoposti a PCI elettiva– in cui contemporaneamente venivano dosati entrambi i marcatori – che il tipo di marcatore impiegato ha effetti non solo sulla proporzione di pazienti con diagnosi di infarto periprocedurale, ma conferisce anche una differente accezione prognostica.

Il problema sollevato dal vostro studio non è di poco conto considerando che la misurazione di CK-MB è progressivamente abbandonata e ci si affisa sempre più al solo dosaggio della troponina. In questa era troponinocentrica come dobbiamo comportarci per diagnosticare un infarto periprocedurale?
Questo è probabilmente l’elemento centrale: come comportarsi? Abbiamo confuso nel tempo, la diagnosi precoce della sindrome coronarica acuta con la diagnosi di infarto miocardico periprocedurale, utilizzando la stessa metrica, e buttando via il bambino con l’acqua sporca. Il gruppo di studi ESC sui Cardiac Biomarkers ha pubblicato nel 2021 un viewpoint intitolato “A fond farewell at the retirement of CKMB” sull’European Heart Journal. Per cui, se questa è visione della “intellighenzia” europea, è difficile immaginare un futuro per gli altri marcatori di danno miocardico che non siano la troponina ad alta sensibilità. Il nostro piccolo contributo suggerisce di non essere troppo affrettati nell’ab-bandonare l’uso del CK-MB, almeno per la diagnosi di infarto miocardico periprocedurale dopo angioplastica coronarica elettiva.

Come mai esiste questa confusione a proposito della definizione di infarto miocardico periprocedurale? Negli studi (in particolare quelli di confronto tra strategie di rivascolarizzazione e terapia medica, come lo studio ISCHEMIA) questo evento “pesa” come un infarto spontaneo; teoricamente si dovrebbe perciò sciogliere la definizione che si associa allo stesso rischio di mortalità di un infarto spontaneo. Quali sono le difficoltà nel trovare un punto di convergenza tra gli addetti ai lavori?
Le osservazioni fatte sono importantissime e colgono due aspetti contigui ma differenti: l’impiego di endpoint compositi negli studi clinici e il peso prognostico dei singoli endpoint. Il progresso, realizzatosi nell’ambito delle terapie cardiovascolari, ha costantemente ridotto l’incidenza degli eventi avversi maggiori nel corso del tempo. Pertanto, l’uso degli endpoint compositi ha consentito di ridurre il sample size richiesto per condurre trial clinici in quanto l’event rate con un composito è sensibilmente maggiore rispetto all’event rate dei suoi singoli componenti. Questo ha facilitato lo sviluppo di nuove sperimentazioni cliniche che non sarebbero mai avvenute se l’endpoint da ridurre fosse rimasto sempre – ad esempio – quello della mortalità. Il rovescio della medaglia è quello di mettere insieme mele con pere, unendo eventi avversi a diverso impatto prognostico. Esistono diverse evidenze che dimostrano che la mortalità associata a un infarto miocardico spontaneo è maggiore rispetto a quella di un infarto periprocedurale. Il corollario è quindi quello di un compromesso che consenta di continuare a utilizzare questo endpoint nell’ambito di un composito, ma provando a utilizzare definizioni che abbiamo maggior impatto prognostico. Purtroppo, l’errore è a monte in quanto, come spesso accade, le definizioni vengono fatte “a tavolino” e poi si cerca di validarle successivamente. Questo approccio dalla teoria all’evidenza è quello meno virtuoso; si dovrebbe invece seguire un approccio inverso, dall’evidenza alla teoria, ovvero costruire definizioni basate su criteri che siano prognosticamente rilevanti. Ultimo esempio potrebbe esser quello dei criteri ARC-HBR (per la definizione dell’alto rischio di sanguinamento dopo angioplastica coronarica): prima sono stati teorizzati e poi è partita la validazione.

Nel vostro lavoro sottolineate come i pazienti con diagnosi di infarto periprocedurale abbiano una complessità anatomica maggiore rispetto ai pazienti che non lo sviluppano. L’infarto periprocedurale potrebbe essere quindi un marker di difficoltà nell’esecuzione della PCI: nella sua esperienza ritiene che possa, talora, essere un evento addirittura inevitabile per raggiungere un obiettivo di successo procedurale (e clinico)?
Anche questa è una domanda straordinaria e la risposta è contenuta in uno studio successivo, che speriamo di pubblicare presto, in cui abbiamo usato tutte le definizioni di infarto miocardico periprocedurale attualmente disponibili (SCAI, ARC-2, Universal Definition, EXCEL, ISCHEMIA) applicandole ai pazienti sottoposti ad angioplastica complessa (cosiddetta “complex PCI”) o meno. Quello che posso anticipare è che l’infarto periprocedurale – indipendentemente dalla definizione adottata – è di gran lunga più frequente nei pazienti sottoposti a complex PCI. Per cui, concordo, l’infarto periprocedurale può costituire quasi uno step inevitabile quando ci si imbarca in un’angioplastica complessa. Da qui, però, l’osservazione che ne consegue, se si tiene conto del motto “association does not mean causation”, è inevitabile: il fatto che l’infarto periprocedurale si associ a un maggior rischio di mortalità è da imputare a una relazione causa-effetto oppure è un marker di complessità che trascina con sé una prognosi peggiore? È vero che non si dovrebbe rispondere a una domanda con un’altra domanda ma il caso, al momento, non è chiuso e gli interrogativi aperti restano ancora tanti.

Lascia un commento