Perché la necessità di nuove Linee Guida? Sono stati raggiunti gli obiettivi prefissati prima della loro stesura?
Era senz’altro necessario produrre nuove Linee Guida della Società Europea di Cardiologia (ESC), in quanto le precedenti erano datate 2010 e 2016, per cui l’edizione uscita alla fine di agosto 2020 si colloca nell’intervallo di tempo giusto per offrire una nuova visione di questo settore in grande sviluppo. La fibrillazione atriale (FA) è una malattia molto eterogenea per cui con l’enunciare raccomandazioni ben ponderate su tutti gli aspetti di gestione della FA penso che siano stati raggiunti gli obiettivi. In generale, in confronto con le 2 precedenti Linee Guida della ESC, si è osservata una riduzione nel numero generali di raccomandazioni (154 raccomandazioni nel 2016 e 214 nel 2010 in confronto a sole 130 nel 2020). Fra le 130 raccomandazioni del 2020, ben il 47% corrisponde a raccomandazioni di classe prima e il 17% delle raccomandazioni ha livello di evidenza A. Nel complesso l’aumento delle raccomandazioni di classe 1 ha pertanto dato più forza alle Linee Guida stesse per indirizzare le decisioni cliniche.
Tra il 2016 e la pubblicazione delle nuove Linee Guida qual è lo studio più importante pubblicato e, in base a questo, come cambia (o non cambia) la nostra pratica clinica?
Tra il 2016 e la pubblicazione delle attuali Linee Guida sono stati presentati una serie di studi, ma riterrei che i più importanti sono stati gli studi controllati sull’impiego clinico della ablazione transcatetere della fibrillazione atriale, rispettivamente lo studio Cabana lo studio Castle AF, nonchè lo studio CAPTAF. I risultati di questi studi controllati hanno permesso di modificare il grado di raccomandazione per l’ablazione trans catetere che, attualmente, è raccomandata nella FA per il controllo del ritmo dopo il fallimento o l’intolleranza a un antiaritmico di classe prima o terza, per migliorare i sintomi sia nei pazienti con FA parossistica che con FA persistente con un grado di raccomandazione classe 1 livello di evidenza A, pertanto con un upgrade rispetto al passato. Inoltre, i risultati dello studio CAPTAF, relativamente alla qualità della vita, hanno permesso di raccomandare con classe IIa, livello di evidenza B, l’ablazione transcatetere dopo un tentativo con un betabloccante, qualora risulti inefficace o non tollerato, nei pazienti con FA parossistica o persistente. Un’altra raccomandazione importante, che deriva direttamente dall’impiego dell’ablazione trascatetere nei pazienti con scompenso cardiaco, è relativa ai casi con sospetto di tachicardiomiopatia, contesto in cui l’ablazione transcatetere è raccomandata con classe di raccomandazione 1 e livello di evidenza B.
Da 5 domini alle 4S. Da una concezione aritmia-centrica all’introduzione del concetto di substrato “sistemico”. Quali scenari vengono aperti?
Le Linee Guida ESC 2020 promuovono un approccio diretto ai pazienti con FA: esiste, quindi, una novità nella caratterizzazione delle FA e lo schema 4S AF si presenta non come una ennesima classificazione, ma come una caratterizzazione in cui la parola chiave è “severità”: severità relativamente al rischio di stroke (da valutare con lo score CHA2DS2VASc), severità relativamente ai sintomi della FA (da valutare in primis con l’EHRA score), severità del carico (“burden”) di FA (da valutare considerando il pattern temporale della FA, in termini di aritmia parossistica, persistente o permanente o, meglio ancora, sulla base di un monitoraggio più intenso, come nei dispositivi impiantabili) e infine severità del substrato, in termini sia di severità della cardiomiopatia atriale, sia severità della cardiopatia sottostante e delle comorbidità in grado di influenzare sia la gestione sia l’outcome.
Qual è la differenza fra FA clinica, AHRE (Atrial High Rate Episodes) e FA subclinica? FA clinica e AHRE/FA subclinica hanno lo stesso rischio? La soglia per l’inizio della terapia anticoagulante è uguale?
Effettivamente i termini di FA “clinica”, FA subclinica e AHRE devono essere impiegati in modo appropriato e quindi risulta importante sottolineare che una FA è clinica quando è documentata con un ECG a 12 derivazioni o mediante una registrazione ECG di una durata di almeno 30 secondi che confermi la FA. In caso di una FA clinica, che può essere sia sintomatica che asintomatica, non ci sono dubbi sulla gestione relativamente alla stima del rischio tromboembolico che si basa sul CHA2 DS2 VASC score. Viceversa, il termine AHRE è vincolato a una diagnosi di aritmia rilevata mediante la estesissima capacità di monitoraggio ottenibile con dispositivi impiantati e dotati di elettrodi atriali, in grado di rilevare qualunque aritmia atriale, e registrarla nella memoria del dispositivo stesso. In presenza di un episodio di tachiaritmia atriale, qualora l’ECG a 12 derivazioni confermasse la presenza di un FA, viene raggiunto il livello della FA clinica, ma molto frequentemente l’esecuzione di un ECG non conferma la presenza di FA per cui abbiamo un’entità nuova, corrispondente al termine che è stato coniato in questi anni di FA subclinica. Quest’ultima è una entità che potrà evolvere in FA clinica nel corso del tempo e che sottende un rischio di stroke inferiore rispetto alla FA clinica, in quanto l’incremento del rischio di stroke rispetto alla popolazione generale è pari a 5 volte per la FA clinica ma è minore, pari a 2,4 volte, per la FA subclinica. Riguardo la gestione della FA subclinica ci sono ancora incertezze riguardo il rapporto rischio beneficio del trattamento anticoagulante e sono in corso due studi controllati in cui pazienti con FA subclinica di durata fra 5 minuti e 24 ore vengono randomizzati a terapia anticoagulante oppure gestione senza anticoagulanti o con ASA.
In quali pazienti e con quali metodi dovremmo effettuare lo screening per la ricerca della FA? L’opportunità di eseguire uno screening della FA silente, non nota, deriva dalla constatazione che molti pazienti presentano come primo evento che porta alla diagnosi di FA un ictus oppure che presentano un episodio di stroke in caso di FA nota non adeguatamente trattata con anticoagulanti, nonostante un profilo di rischio significativo. È noto come l’incidenza di FA aumenta con l’età con un picco oltre i 65-75 anni, per cui già nel 2016, nelle Linee Guida ESC, è stata raccomandata esecuzione di uno screening opportunistico nei pazienti di età ≥65 anni. Le prime esperienze di screening in Inghilterra si sono basate sulla palpazione del polso, che è sicuramente un metodo sensibile, ma associato a numerosi falsi positivi per cui, oggi, lo screening della FA si può giovare di numerosi dispositivi e mezzi tecnologici che vanno dalle apparecchiature per il rilievo della pressione con specifici sensori per rilevare l’irregolarità del battito cardiaco agli ECG monocanali fino a numerose app o watch e altri dispositivi cosiddetti “wearables”, cioè “indossabili”. Le Linee Guida ESC 2020 sottolineano l’importanza di proporre uno screening opportunistico nei soggetti di età ≥ di 65 anni con palpazione del polso o rilievo dell’ECG con una raccomandazione di classe 1 con livello di evidenza B.
Il tipo di fibrillazione atriale (es. parossistica, persistente) non deve guidare la scelta se iniziare o meno l’anticoagulante. Questa raccomandazione compare esplicitamente nelle ultime Linee Guida. Questo è dovuto solo al fatto che è ancora diffusa, nella pratica clinica, la tendenza all’“anticoagulante in the pocket” o vi sono anche evidenze nel rapporto temporale fra FA e stroke che rendono inadeguato e dannoso questo approccio?
Penso occorra essere molto chiari e se un paziente ha un episodio di FA, che sia il primo o non il primo, che sia parossistico o persistente, che venga ripristinato o meno il ritmo sinusale, occorre considerare che queste caratteristiche non devono influenzare la decisione di iniziare la terapia anticoagulante, essendo questa indicata unicamente sulla base del profilo di rischio del paziente, valutato con lo score CHA2 DS2 VASc. Pertanto, a esclusione dei casi in cui il paziente risulta classificato a basso rischio, deve essere sempre iniziato l’anticoagulante, indipendentemente dal fatto che sia solo il primo episodio di FA o che sia stato ripristinato il ritmo sinusale. Al momento non abbiamo alcuna evidenza che l’anticoagulante somministrato a intervalli (“anticoagulante in the pocket”) sia una strategia sicura in pazienti con score CHA2 DS2 VASc indicativo della necessità di scoagulazione a lungo termine. Anzi, in esperienze condotte con i dispositivi impiantabili, in cui l’istituzione della terapia anticoagulante era vincolata alla presenza o meno della FA, i risultati sono stati negativi.
Le Linee Guida raccomandano (Classe I, livello di evidenza A) il controllo del ritmo nei pazienti sintomatici al fine di migliorare i sintomi e la qualità della vita. Questa indicazione può essere già riletta e ampliata con la pubblicazione dello studio EAST AFNET 4?
Lo studio EAST AFNET 4 pubblicato sul New England Journal of Medicine lo stesso giorno in cui sono state presentate nel congresso europeo le Linee Guida della FA, ha evidenziato che nei pazienti con FA riconosciuta da meno di un anno la strategia di controllo del ritmo è la strategia di scelta, rispetto alla strategia usuale, che prevedeva controllo della frequenza con passaggio a controllo del ritmo solo in pazienti gravemente sintomatici. Questo studio randomizzato ha coinvolto più di 2.700 pazienti e ha avuto il merito di valutare un endpoint importante quale il composito di stroke, mortalità cardiovascolare, ospedalizzazione per scompenso o sindrome coronarica acuta. Si tratta di uno studio che nel braccio randomizzato a “rhythm control” ha sostanzialmente impiegato i farmaci di uso attuale (propafenone, flecainide, solatolo, amiodarone e dronedarone) e solo in una minima quota di soggetti l’ablazione (in meno del 10% dei casi). Si tratta, quindi, di uno studio che sostanzialmente indica che, nella fase precoce di attuazione di una terapia di “rhythm control”, i farmaci possono essere utilizzati, sono sicuri e il numero di effetti avversi è limitato. Il dato buono è che l’endpoint primario è risultato più favorevole nel braccio di “rhythm control” rispetto al braccio “rate control”, quindi lo studio ci indica che vi è sicurezza ed efficacia nel prescrivere in modo ragionato e appropriato i farmaci che oggi utilizziamo.
Quali sono i gruppi di pazienti in cui l’ablazione deve o dovrebbe essere la terapia di prima linea senza attendere il fallimento dei farmaci antiaritmici?
Considerando che l’ablazione è comunque un intervento invasivo, emerge l’opportunità di proporre l’ablazione in pazienti che hanno fallito almeno un tentativo di controllo con farmaci antiaritmici o, come recentemente sottolineato, che sono intolleranti o hanno fallito una fase di trattamento con betabloccanti. È invece assolutamente raccomandata l’ablazione transcatetere come trattamento di prima scelta nei casi di sospetta tachicardiomiopatia. Esiste, ovviamente, la possibilità di un adattamento delle evidenze disponibili al contesto specifico dei pazienti che possono avere motivazioni individuali per rendere più rapido l’accesso all’ablazione transcatetere che, comunque, può essere considerata in prima linea in pazienti selezionati (raccomandazione IIa, classe di evidenza B nelle recenti Linee Guida ESC).
Cosa dicono e cosa non dicono le Linee Guida nella cardioversione del paziente con FA insorta da meno di 48 ore: sono sempre necessarie 4 settimane di terapia anticoagulante per tutti i pazienti?
Per i pazienti con FA di durata minore di 48 ore, le Linee Guida ESC del 2020 offrono una semplificazione di gestione: in caso di pazienti con CHA2 DS2 VASc, 0 nei maschi e 1 nelle donne e con FA di durata minore di 24 ore cardiovertita a ritmo sinusale e nei quali il trattamento anticoagulante, pure in assenza di evidenze dirette, era raccomandato per quattro settimane, è oggi possibile la dimissione senza trattamento anticoagulante in quanto può essere considerato come opzionale.
Il “Pill in the pocket” è utilizzato ancora troppo poco o un uso estensivo può comportare dei rischi?
La strategia “Pill in the pocket” consiste nella somministrazione di un carico orale di farmaco di classe 1c in pazienti con FA di recente insorgenza che ne abbiano già testato la sicurezza in ambito ospedaliero sotto monitoraggio, accettando tale pratica e mantenendo un periodo di riposo nelle ore che seguono l’assunzione del farmaco. Sicuramente è poco utilizzata rispetto al suo potenziale, mentre nei soggetti giovani senza cardiopatia potrebbe essere una risorsa in caso di recidive infrequenti di FA, tali da non richiedere profilassi continuativa o da non suggerire l’ablazione transcatetere. Un limite è senz’altro rappresentato dalla necessità che la prima somministrazione venga effettuata in ambiente controllato.
I DOAC nei primi 3 mesi dopo una sostituzione valvolare con bioprotesi?
I DOAC devono essere assolutamente evitati, anzi sono specificatamente controindicati, nei pazienti con protesi valvolare meccanica o con stenosi mitralica almeno moderata. Viceversa, è senz’altro possibile utilizzarli nei pazienti con FA e bioprotesi valvolare oltre i primi tre mesi dall’intervento. Nei primi tre mesi è da tempo validato l’impiego di un inibitore della vitamina K ma questo, come la TAVI, è sicuramente un settore dove nuovi dati verranno proposti in futuro da studi osservazionali e speriamo anche da studi randomizzati.
Dagli ultimi dati sembra non esistere più la FA “secondaria”. Nei pazienti che sviluppano FA nel post-operatorio l’anticoagulazione a lungo termine (se indicata) va prescritta? Anche dopo chirurgia cardiaca?
La gestione della FA peri-operatoria è un argomento controverso e nel tempo si sono ridotte le evidenze che suggerivano l’interpretazione della FA in questo contesto come un evento transitorio, non seguito da recidive né da complicanze tromboemboliche. In realtà, numerosi studi osservazionali hanno evidenziato come pazienti che presentano una FA nel post-operatorio di chirurgia cardiaca e, soprattutto, di chirurgia non cardiaca, hanno una elevata tendenza alle recidive e alle complicanze a distanza, in termini di mortalità e stroke, a follow-up medio-lunghi. Paradossalmente, il rischio è maggiore per i pazienti che sviluppano una FA in corso di intervento che non sia di chirurgia cardiaca, in quanto una buona parte del determinismo delle FA che si presentano dopo chirurgia valvolare o bypass è in rapporto all’importante quota di infiammazione che si associa a tale tipo di interventi, quindi in rapporto a una condizione transitoria. Quindi in attesa di studi più approfonditi e registri prospettici, riteniamo sia opportuno considerare – almeno per un certo intervallo di tempo – la terapia anticoagulante in pazienti con profilo a rischio che sviluppano FA in una fase peri-operatoria, in assenza di controindicazioni assolute alla terapia anticoagulante, mettendo un po’ fra parentesi il concetto di fibrillazione atriale puramente “secondaria” e transitoria.
Parlando di futuro… quali sono i 2 gap principali che le prossime Linee Guida dovranno colmare?
Queste Linee Guida suggeriscono l’opportunità di un approccio olistico al paziente in cui il trattamento di aspetti specificatamente aritmologici come il controllo del ritmo o il controllo della frequenza deve essere assolutamente associato sia a trattamento anticoagulante, per la riduzione del rischio tromboembolico, sia a interventi per il controllo dei fattori di rischio come l’obesità, la sleep apnea e l’esercizio fisico, per ottenere il miglior risultato in termini di controllo dell’aritmia e per migliorare l’outcome del paziente. Le Linee Guida, pertanto, sottolineano che deve essere attuato un approccio più globale che deve prevedere una integrazione fra le competenze di diversi specialisti, in un’ottica di gestione multidisciplinare che non sarà facile da implementare nella pratica clinica. Un gap conoscitivo è pertanto relativo a definire in che modo le cosiddette “AF clinic” o gli ambulatori della FA, delineati dalle Linee Guida, saranno oggetto di effettiva implementazione nella realtà complessa della cardiologia attuale. Ma un altro gap molto importante, a mio avviso, è relativo alla definizione dei rapporti fra FA e scompenso cardiaco. Senz’altro, esistono forme in cui la FA è una conseguenza dello scompenso e vi sono forme in cui la FA è la determinante dello scompenso, ma esistono sicuramente forme intermedie in cui c’è un ruolo della FA nel peggiorare uno scompenso pre-esistente e alla luce delle attuali possibilità interventistiche con l’ablazione transcatetere è necessario migliorare la capacità di identificare il peso relativo delle due componenti e il punto di non ritorno, nelle FA di lunga durata, in cui interventi sull’aritmia risultano non più associati a successo, in ragione della severità dell’associata cardiomiopatia atriale. Un approfondimento delle conoscenze in questo settore potrà sicuramente migliorare il nostro approccio a questo contesto molto complesso, ma sicuramente molto rilevante in ragione del progressivo invecchiamento della popolazione e del conseguente incremento dei casi sia di FA che di scompenso cardiaco.
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