PCI has no role in patients with heart failure and reduced ejection fraction: PROS and CONS

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Indice

PROS

  • Perera D – British Heart Foundation Centre of Excellence at the School of Cardiovascular Medicine and Sciences, King’s College London, London, United Kingdom

Mentre l’angioplastica coronarica (PCI) può migliorare i sintomi e la qualità di vita nei pazienti anginosi, il suo ruolo nel trattamento della disfunzione ventricolare sinistra dei pazienti coronaropatici con HFrEF risulta controverso. La cardiomiopatia ischemica è il risultato di aree disfunzionanti per presenza di tessuto cicatriziale, esito irreversibile di un infarto miocardico, e di tessuto “ibernato” la cui funzione è potenzialmente reversibile con un intervento di rivascolarizzazione miocardica. Lo studio STICH, che ha randomizzato 1.212 pazienti, ha dimostrato un beneficio, emerso a un follow-up di 10 anni, di un intervento di bypass aortocoronarico rispetto alla terapia medica in questa tipologia di pazienti, nonostante l’handicap iniziale legato alla mortalità perioperatoria. Questi risultati favorevoli sono stati trasferiti, nella routine clinica, anche alla PCI che, teoricamente, avrebbe potuto avere risultati anche migliori rispetto al bypass aortocoronarico per una mortalità operatoria decisamente inferiore. Le Linee Guida del 2021 assegnano una raccomandazione di classe IIb all’intervento di PCI in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra.

Tuttavia:

  • lo studio REVIVED-BCIS2, che ha randomizzato a PCI o terapia medica ottimale 700 pazienti (età media 70 anni) con cardiomiopatia ischemica, FE depressa (mediana 28%) e coronaropatia estesa suscettibile di rivascolarizzazione, ha mostrato che a un follow-up di 3.4 anni l’endpoint combinato di di mortalità e ospedalizzazione per scompenso è stato simile nei due gruppi (hazard ratio 0.99, 95% confidence interval: 0.78-1.27; p=0.96);
  • la FE è migliorata a 6 mesi di circa il 5%, senza alcuna differenza tra i due gruppi. La qualità di vita, valutata con il Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire Score, è migliorata nel gruppo PCI a 1 anno rispetto al gruppo trattato con la sola terapia medica, ma tale differenza non risultava più evidente a due anni di follow-up. Quindi la PCI non fornisce un miglioramento nè dell’outcome, nè della funzione ventricolare sinistra, nè un beneficio protratto della qualità di vita.

CONS

  • Grines CL, Marshall JJ. Northside Hospital Cardiovascular Institute, Atlanta, GA, USA

Nei pazienti con cardiomiopatia ischemica un miglioramento della FE comporta un miglioramento della prognosi: nello studio REVIVED-BCIS2 i pazienti in cui la FE era aumentata di >4.7% (sia nel gruppo PCI che nel gruppo trattato con terapia medica ottimale) hanno avuto un outcome migliore rispetto ai pazienti che non hanno presentato un tale aumento di FE. Il problema è che non si riesce a selezionare a priori tali pazienti con le metodiche attualmente a disposizione, in quanto i test per individuare la vitalità non predicono il beneficio (come peraltro osservato anche nello studio STICH). Benchè lo studio REVIVED-BCIS2 non abbia dimostrato l’ipotesi iniziale (riduzione dell’outcome primario del 30% nel gruppo PCI), alcuni dati dello studio sono in favore di un approccio interventistico con PCI:

  • nello studio vi è stata una riduzione di infarto miocardico spontaneo nel gruppo PCI (5.2%) rispetto al gruppo in terapia medica (9.3%, p=0.04), un dato che ha la sua rilevanza clinica soprattutto in pazienti che hanno una FE depressa. È stata osservata, sempre nel gruppo PCI, anche una minor necessità di intervento del defibrillatore per terminare aritmie ventricolari minacciose.

Inoltre, lo studio REVIVED-BCIS2 presenta debolezze intrinseche:

  • la riduzione dell’endpoint primario (30%) ipotizzata per PCI versus terapia medica ottimale appare molto ambiziosa. A fronte di questa ipotesi, il numero di pazienti appare esiguo (700 contro i 1.212 dello studio STICH);
  • la popolazione arruolata poi era prevalentemente paucisintomatica (solo il 25% dei pazienti era in classe NYHA III-IV e l’angina di classe I-II era presente in meno di un terzo dei pazienti;
  • non vi era un registro dei pazienti che, pur avendo caratteristiche idonee all’arruolamento, non sono stati arruolati. Si può ipotizzare che i pazienti con coronaropatia più estesa siano stati rivascolarizzati e non inclusi nello studio;
  • la modalità di rivascolarizzazione operata nello studio appare discutibile: oltre il 20% dei pazienti ha avuto una rivascolarizzazione incompleta e la mediana delle lesioni trattate è stata di 2; non viene menzionato un utilizzo di FFR per dirimere la significatività di lesioni intermedie;
  • la durata del follow-up (mediana 3.4 anni) è troppo breve per trarre conclusioni definitive: nello studio STICH la riduzione di mortalità nei pazienti randomizzati a bypass aortocoronarico è stata osservata a un follow-up di 10 anni, mentre non era presente alcuna differenza significativa a 5 anni. A tal proposito va considerato che la mortalità cardiovascolare era numericamente inferiore nel gruppo PCI (21.9% vs 24.9%; HR 0.88, 95% CI: 0.65-1.20), e non è escluso che le curve possano ulteriormente divergere al prolungarsi del follow-up.

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