Predictors of target lesion failure after treatment of left main, bifurcation, or chronic total occlusion lesions with ultrathin-strut drug-eluting coronary stents in the ULTRA registry.

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Abstract

Background: Data about the long-term performance of new-generation ultrathinstrut drug-eluting stents (DES) in challenging coronary lesions, such as left main (LM), bifurcation, and chronic total occlusion (CTO) lesions are scant.

Methods: The international multicenter retrospective observational ULTRA study included consecutive patients treated from September 2016 to August 2021 with ultrathinstrut (<70 μm) DES in challenging de novo lesions. Primary endpoint was target lesion failure (TLF): composite of cardiac death, target-lesion revascularization (TLR), target- vessel myocardial infarction (TVMI), or definite stent thrombosis (ST). Secondary endpoints included all-cause death, acute myocardial infarction (AMI), target vessel revascularization, and TLF components. TLF predictors were assessed with Cox multivariable analysis.

Results: Of 1801 patients (age: 66.6 ± 11.2 years; male: 1410 [78.3%]), 170 (9.4%) experienced TLF during follow-up of 3.1 ± 1.4 years. In patients with LM, CTO, and bifurcation lesions, TLF rates were 13.5%, 9.9%, and 8.9%, respectively. Overall, 160 (8.9%) patients died (74 [4.1%] from cardiac causes). AMI and TVMI rates were 6.0% and 3.2%, respectively. ST occurred in 11 (1.1%) patients while 77 (4.3%) underwent TLR. Multivariable analysis identified the following predictors of TLF: age, STEMI with cardiogenic shock, impaired left ventricular ejection fraction, diabetes, and renal dysfunction. Among the procedural variables, total stent length increased TLF risk (HR: 1.01, 95% CI: 1-1.02 per mm increase), while intracoronary imaging reduced the risk substantially (HR: 0.35, 95% CI: 0.12-0.82).

Conclusions: Ultrathin-strut DES showed high efficacy and satisfactory safety, even in patients with challenging coronary lesions. Yet, despite using contemporary gold-standard DES, the association persisted between established patient- and procedure-related features of risk and impaired 3-year clinical outcome.


Intervista a Ovidio De Filippo

Dipartimento di Scienze Mediche, Divisione di Cardiologia, Università di Torino

Dottor De Filippo quali sono i dati principali della vostra ricerca?
Va detto, sostanzialmente, che con il registro ULTRA si è tentato di colmare un gap di ricerca e clinico. Fino ad oggi, infatti, nonostante i DES ultrasottili occupino la maggioranza dei nostri scaffali in cathlab, essendo reputati dei device di ultima generazione, non vi erano delle chiare evidenze in setting coronarici giudicati complessi e per i quali è opinione comune che sia richiesto uno “scaffolding” della placca più efficace. Parliamo, ad esempio, di lesioni del tronco comune e CTO. Questo, ha fatto sì che tra gli operatori serpeggiasse la convinzione che se da un lato una riduzione dello spessore delle maglie si associasse ad outcome migliori in virtù della riduzione dei fenomeni infiammatori locali, e di una maggiore biocompatibilità, questo beneficio fosse controbilanciato da uno svantaggio delle maglie sottili in contesti come quelli elencati. È importante notare infatti che sebbene alcune meta-analisi abbiano suggerito un vantaggio nei confronti dei DES ultrasottili rispetto a quelli di seconda generazione con strutture più spesse, queste osservazioni provenivano da studi con campioni ristretti e selezionati. I dati principali del nostro studio ULTRA ci permettono dunque di comprendere meglio l’efficacia dei DES ultrasottilii in lesioni coronariche complesse. Grazie al registro ULTRA i dati relativi alla performance di questi device sono estesi a un setting di real-life e a contesti anatomici complessi, suggerendo che i DES ultrasottili preservano una buona efficacia e sicurezza in questi scenari.

Alcune meta-analisi hanno mostrato una ridotta “target vessel failure” con questi DES ultrasottili rispetto a DES di seconda generazione, ma con maglie più spesse. Tuttavia, queste osservazioni provengono da studi con casistiche selezionate. Nella sua esperienza, come si confrontano i vostri dati con quelli storici ottenuti con i DES tradizionali di seconda generazione nelle varie tipologie di PCI complesse?
Come anticipato, quando si raccolgono evidenze relative a device di più recente introduzione sul mercato, queste spesso si rifanno a casistiche molto selezionate. Era pertanto importante estendere alla pratica clinica comune le evidenze a favore di questi device. È esperienza comune, tra gli operatori, che si sia raggiunta una sorta di plateau nella sicurezza dei device da impiantare nei nostri pazienti con lesioni coronariche. Ciò fa sì che la scelta ricada su dispositivi con i quali ci si sente più confidenti, che di solito sono quelli con un background commerciale più consolidato. Tuttavia, non bisogna dimenticare che le procedure di rivascolarizzazione contemporanea hanno tassi di eventi avversi estremamente infrequenti. Si pensi, ad esempio, che la stent thrombosis, prima un vero incubo per gli emodinamisti, attualmente ha delle incidenze stimate inferiori all’1%. Se da un lato questo rassicura l’operatore nella scelta “indistinta” dello stent, dall’altro non deve farci sottovalutare che con numeri così bassi non ci si possa fidare solo della propria esperienza, in quanto significherebbe che dovremmo avere memoria di circa duecento pazienti trattati con lo stesso device per osservare una trombosi di stent. Per questo motivo, è necessario raccogliere dati di ampio respiro che consolidino e supportino le scelte che facciamo quotidianamente sulla base dell’esperienza personale. In questo caso, i device più moderni hanno dimostrato di essere una buona opzione perché associati a tassi di complicanze nella media rispetto alla complessità delle lesioni trattate. Se a questo si aggiunge il beneficio dimostrato in termini di biocompatibilità e riduzione dei tassi di restenosi, i device con maglie ultrasottili sono senza dubbio da ritenersi dei dispositivi di prima scelta.

I vostri dati mostrano una “target lesion failure” e una mortalità abbastanza elevate nei pazienti trattati per stenosi del tronco comune. È dipeso dalle comorbilità presenti, da altre complessità procedurali associate o sono risultati attesi per questo tipo di PCI complessa?
Come immagini, la risposta a questa domanda non è mai semplice. Le lesioni del tronco comune hanno certamente un valore prognostico indipendente, ma spesso sono anche indice di una patologia aterosclerotica più aggressiva e avanzata che fa dei pazienti che ne soffrono una popolazione a rischio molto elevato e frequentemente caratterizzata da comorbidità che impattano sulla prognosi. Queste considerazioni sono ancora più nette quando si parla di pazienti complessi come quelli inclusi nel registro real-life ULTRA. Il dato forse più interessante, che emerge da questa analisi, è che vi sono delle caratteristiche cliniche e procedurali quali ad esempio l’età, la presentazione clinica, la depressione della funzione ventricolare sinistra e la lunghezza totale degli stent impiantati, che mantengono un’associazione indipendente con outcome peggiori nonostante si usino device di ultima generazione. La risposta pertanto non è univoca, ma direi che i dati sono in linea con quanto atteso da scenari come la rivascolarizzazione percutanea del tronco comune. A fronte di un notevole vantaggio dall’utilizzo di tecniche di imaging nel guidare le procedure (ribadito nel vostro lavoro), le percentuali di utilizzo sono ancora molto basse. Secondo lei, è un problema culturale (la maggior parte degli operatori non è ancora convinta del vantaggio che si può ottenere), di falsa percezione del rischio (più breve la procedura meno danno per il paziente) oppure ci sono altre ragioni? Si tocca un tasto dolente. I dati relativi alla penetranza dell’imaging intracoronarico nella pratica clinica hanno stupito anche gli Autori e sono sicuramente deludenti, soprattutto perché si tratta di contesti molto complessi dove le metodiche ancillari possono fare la differenza. Ormai, ci sono dati incontrovertibili sul miglioramento di endpoint anche maggiori (come la mortalità) nelle procedure guidate da imaging intracoronarico rispetto a quelle guidate dalla sola angiografia. Credo, peraltro, che la maggioranza degli operatori sia ormai convinta della sicurezza procedurale di queste metodiche. Pertanto, ritengo purtroppo che il problema sia culturale e stia anche in una percezione fallace del rapporto costo-efficacia. Usare l’imaging appare dispendioso e limita i tempi di sala, talvolta in maniera notevole. Spesso si preferisce “accontentarsi” di un risultato angiograficamente accettabile e favorire il workflow del laboratorio di emodinamica, dimenticando che l’IVUS e l’OCT possono determinare una riduzione di nuovi eventi coronarici e implicano anche una riduzione dei tassi di riospedalizzazione, di necessità di reintervento e, non ultimo, dei costi totali.

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