Qual è la proporzione dei pazienti “ischemia like” tra quelli sottoposti attualmente a PCI?

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Indice

Inquadramento

Lo studio ISCHEMIA ha incluso pazienti con coronaropatia stabile (CCS) che avessero documentazione di ischemia almeno moderato/severa a uno stress test e li ha randomizzati a PCI più terapia medica ottimale versus solo terapia medica ottimale, non mostrando differenze sull’outcome a un follow-up mediano di 3.2 anni, in particolare rispetto a mortalità e infarto miocardico. Non è chiaro tuttavia se questo studio rappresenti la popolazione con CCS attualmente sottoposta a PCI oppure un sottogruppo a rischio non elevato.

Lo studio in esame

Analisi di 388.212 pazienti CCS sottoposti a PCI tra l’ottobre 2017 e il giugno 2019 e inseriti nel National Cardiovascular Data Registry (NCDR) CathPCI Registry, che include 1.662 ospedali statunitensi. Di questi 125.302 (32.3%) avevano caratteristiche cliniche compatibili con l’inclusione nello studio ISCHEMIA, mentre 71.852 (18.5%) erano da considerare ad “alto rischio” (35.2% con malattia del tronco comune, 43.7% con disfunzione ventricolare sinistra, 16.8% con nefropatia ultimo stadio); 67.159 pazienti (17.3%) avevano uno stress test negativo o con ischemia lieve (“basso rischio”); infine 123.899 (31.9%) non avevano eseguito stress test o ne mancava l’informazione (“inclassificabili”). Tali percentuali variavano ampiamente tra i diversi ospedali. La mortalità ospedaliera risultava significativamente inferiore tra i pazienti “ISCHEMIA like” rispetto agli altri gruppi (p<.001, vedi Tabella).

Take home message

Circa un terzo dei pazienti CCS sottoposti a PCI mostrano caratteristiche cliniche compatibili con l’inclusione nello studio ISCHEMIA, tuttavia con ampia variabilità tra i vari ospedali.

Interpretazione dei dati

Gli Autori, discutendo i dati, esprimono soddisfazione sottolineando come essi attestino una buona appropriatezza di indicazione alla PCI negli Stati Uniti. Infatti “solo” il 17% delle procedure nei pazienti CCS è stata effettuato in pazienti a basso rischio, cioè con stress test negativo o con ischemia lieve (vedi più avanti il commento in proposito di Flavio Ribichini). I pazienti “inclassificabili” avevano in realtà più frequentemente infarto o scompenso cardiaco pregresso rispetto ai pazienti “ISCHEMIA-like” e rappresentavano una popolazione a rischio più alto. Tuttavia, come anche gli Autori osservano, proprio la presenza nello studio di pazienti “inclassificabili” mostra una importante limitazione dello studio, e cioè l’assenza di informazioni importanti in molti pazienti inclusi nel registro.

L’opinione di Flavio Ribichini

Università di Verona

Credo che questi dati si possano interpretare sotto diversi punti di vista:

  1. un dubbio generalizzato: l’applicabilità dello studio ISCHEMIA nella vita reale;
  2. un mito tra i cardiologi: l’impatto clinico che gli interventi percutanei possono avere in diversi tipologie di pazienti;
  3. la discrepanza tra teoria e pratica, ovvero l’aderenza dei medici ai risultati degli studi clinici, e non da meno;
  4. le motivazioni che gli stessi medici americani hanno per fare o non fare una procedura “elettiva” in diversi contesti lavorativi.

Tutti sono interessanti da analizzare, ma per ovvie ragioni mi focalizzerò su quelli che, a mio avviso, più fortemente determinano le osservazioni di questo studio e che possono avere una maggior importanza nel nostro contesto Italiano, anche se non sarà una analisi “politically correct”. Lo studio dimostra che solo un terzo dei pazienti trattati nella quotidiana realtà di ospedali USA sarebbe entrato nello studio ISCHEMIA, e secondo questo studio, nemmeno questi pazienti avranno vantaggi rispetto alla terapia medica (TM) in termini di eventi clinici maggiori, almeno per i 3-5 anni che seguono alla procedura. Purtroppo l’articolo fornisce solo dati clinici intra-ospedalieri e quindi i risultati non sono confrontabili con l’endpoint dello studio ISCHEMIA. Mostra inoltre che meno di un quinto dei pazienti (18.5%) diverge dai criteri di inclusione di ISCHEMIA perchè presentavano un profilo di rischio maggiore rispetto a quello dello studio. Ci piacerebbe pensare che questi pazienti abbiano si beneficiato della PCI rispetto alla TM, ma questo dato importante, non viene riportato nel manoscritto, e quindi agli scettici resta il dubbio, agli entusiasti ottimisti la speranza. Ma il dato più risonante è che la metà dei pazienti non aveva proprio una indicazione a fare una PCI dettata dalla clinica o da esami diagnostici di ischemia inducibile. Gli Autori ipotizzano tra questi casi una popolazione “a più alto rischio” che esula dai parametri analizzati, o anche una grandissima variabilità tra i centri, visto che solo l’1% di questi mostra una adesione del 70% (circa) ai parametri stabiliti da ISCHEMIA. Non possiamo anche escludere che trattandosi di un registro, la raccolta datti abbia dei limiti. Più ironicamente però, mi viene da pensare che molti cardiologi interventisti americani non legga il NEJM, o se lo legge non ci faccia caso. Infatti, gli USA sono il paese dei sogni per i giovani, (soprattutto se sono cardiologi interventisti), ma forse non è così allettante per i pazienti, soprattutto se non saldamente assicurati. Il diretto rapporto tra procedure e guadagno di un sistema sanitario iper-liberale dove esistono istituzioni recensite nel database nazionale che eseguono 50 PCI in 20 mesi (anche se incredibile per i nostri parametri sanitari così è scritto nei metodi) potrebbe molto semplicemente chiarire le mancate indicazioni cliniche alle angioplastiche riscontrate in questo lavoro senza ulteriori analisi. Una sincera convinzione di fare del bene facendo una angioplastica senza una chiara indicazione potrebbe aver motivato qualche onesto operatore, ma purtroppo questo atteggiamento è stato più volte smentito dagli studi clinici (pubblicati sul NEJM, per l’appunto), e appare penalizzante per il paziente in termini di mortalità, anche in questo studio. Insomma, il lavoro di Chatterjee et al ci riporta a una realtà nota, ovvero che molte procedure elettive in pazienti cronici vengono eseguite senza chiare indicazioni e, come tali, hanno poche possibilità di apportare benefici clinici. Le percentuali di questi casi potrebbero variare secondo sostanziali differenze tra i sistemi sanitari, ma non solo. Sicuramente ci vuole tempo, educazione e adeguate modifiche al sistema di salute per trovare un equilibrio tra gli estremi in mezzo ai quali si trovano gli errori e le verità.

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