Abstract
Aims: The CLIMA study, on the relationship between coronary plaque morphology of the left anterior descending artery and twelve months clinical outcome, was designed to explore the predictive value of multiple high-risk plaque features in the same coronary lesion [minimum lumen area (MLA), fibrous cap thickness (FCT), lipid arc circumferential extension, and presence of optical coherence tomography (OCT)-defined macrophages] as detected by OCT. Composite of cardiac death and target segment myocardial infarction was the primary clinical endpoint.
Methods and results: From January 2013 to December 2016, 1.003 patients undergoing OCT evaluation of the untreated proximal left anterior descending coronary artery in the context of clinically indicated coronary angiogram were prospectively enrolled at 11 independent centres (clinicaltrial.gov identifier NCT02883088). At 1-year, the primary clinical endpoint was observed in 37 patients (3.7%). In a total of 1.776 lipid plaques, presence of MLA <3.5 mm2 [hazard ratio (HR) 2.1, 95% confidence interval (CI) 1.1–4.0], FCT ><75 µm (HR 4.7, 95% CI 2.4–9.0), lipid arc circumferential extension >180° (HR 2.4, 95% CI 1.2–4.8), and OCT-defined macrophages (HR 2.7, 95% CI 1.2–6.1) were all associated with increased risk of the primary endpoint. The pre-specified combination of plaque features (simultaneous presence of the four OCT criteria in the same plaque) was observed in 18.9% of patients experiencing the primary endpoint and was an independent predictor of events (HR 7.54, 95% CI 3.1–18.6).
Conclusion: The simultaneous presence of four high-risk OCT plaque features was found to be associated with a higher risk of major coronary events.
Intervista a Francesco Prati
Cardiovascular Sciences Department, San Giovanni Addolorata Hospital, Rome
Dottor Prati, qual è il “take home message” del Vostro studio?
Lo studio è a supporto dell’esistenza della placca vulnerabile. Se cercata bene, associando con una metodica ad alta risoluzione più elementi di vulnerabilità, è in grado di identificare soggetti a rischio di eventi “hard” (morte o infarto).
È interessante notare come i pazienti con le quattro caratteristiche OCT (Optical coherence tomography) indicative di potenziale instabilità clinica, avessero un rischio 5 volte più alto – rispetto ai pazienti in cui non si individuava tale quadro – di avere un successivo infarto anche in sede diversa da quella esplorata (tratto prossimale della discendente anteriore). Quale valore clinico può avere questo dato?
La presenza di una placca vulnerabile va considerata anche un marker di malattia. Identifica anche i soggetti con una aterosclerosi che possiamo definire più aggressiva in tutto il distretto coronarico. Ecco perché una placca con caratteristiche di instabilità si associa a un rischio aumentato di infarto etero-sede rispetto alla lesione studiata.
Il quadro OCT ad alto rischio di successiva instabilità clinica ha un’alta specificità (97.5%) ma ha una bassa sensibilità (18.9%) perché predice solo 7 eventi su 37. Inoltre è riscontrabile in circa il 4% dei casi studiati. Pensa, tuttavia, che ci siano pazienti nei quali una indagine OCT sia clinicamente necessaria a fini prognostici?
Personalmente non ritengo che la bassa sensibilità rappresenti un grosso problema. Non possiamo immaginare che la morfologia dell’aterosclerosi individui la maggior parte delle cause dell’infarto, considerata la complessità della genesi delle sindromi coronariche acute. Vedrei, invece, il dato in luce ottimistica; penso ci si possa rallegrare nell’individuare circa il 20% dei soggetti che hanno una aterosclerosi così brutta da causare eventi infartuali o morte nell’arco di 1 anno. Trovo, invece, scoraggiante che solo il 4% circa dei casi studiati abbia delle placche ad alto rischio. Si tratta di una percentuale troppo bassa per giustificarne la ricerca con una tecnica di imaging invasivo. Per questo motivo, nello studio INTER-CLIMA (un trial randomizzato ai blocchi di partenza che viene descritto successivamente), vengono adottati nuovi criteri. La placca vulnerabile viene definita dalla presenza di una capsula fibrosa sottile (di gran lunga l’elemento più importante) più due dei rimanenti fattori di rischio. In tal modo si identificano placche a rischio di eventi in circa il 15% della popolazione studiata. Lo studio INTER-CLIMA chiarirà se l’OCT abbia una efficacia clinica nel prevenire gli hard end-point.
Recentemente si è annessa molta importanza al dato OCT di aspetto “a strati multipli” della placca come segno di “plaque healing”, indice di stabilità della lesione aterosclerotica. Nei vostri pazienti questo aspetto appare similmente distribuito tra pazienti con o senza eventi nel follow-up. Quale valore ha questa caratteristica OCT?
Io ho qualche incertezza sull’interpretazione del plaque healing. Questo aspetto della placca a strati dovrebbe identificare lesioni che hanno avuto in passato delle fasi di instabilizzazione (organizzazione del trombo). Ho qualche perplessità nel ricondurre questo aspetto OCT a una unica entità fisiopatologica. Secondo la maggior parte degli studi il plaque healing rappresenterebbe un indice di stabilità. Non lo posso escludere ma rimango dell’idea che vi siano altre componenti della placca aterosclerotica con un impatto clinico più importante.
Qual è il passo successivo della vostra ricerca? Ritiene che i pazienti in cui si identifichino placche che definiscono un alto rischio di eventi futuri debbano essere subito trattati, oltre che con statine, anche con inibitori di PCSK9?
Un primo progetto (INTER-CLIMA), cui abbiamo fatto già cenno, è il confronto tra le metodiche funzionali (fractional flow reserve [FFR]- instant wave-free ratio [IFR] e Resting full-cycle ratio [RFR]) e l’OCT nel guidare il trattamento di lesioni intermedie non culprit in soggetti con sindrome coronarica acuta. La dimostrazione che trattare le lesioni vulnerabili significa migliorare l’outcome è di fatto l’apertura a differenti soluzioni terapeutiche. Non mi stupirei se in futuro, la marcata riduzione della colesterolemia, potesse essere la soluzione vincente. C’è poi un secondo filone di ricerca che stiamo iniziando ed è rappresentato dalla possibilità di trasferire le informazioni ottenute con l’OCT a metodiche non invasive. Qui c’è tanto da fare.
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