Antiplatelet therapy in patients with conservatively managed spontaneous coronary artery dissection from the multicentre DISCO registry.

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Abstract

Aims: The role of antiplatelet therapy in patients with spontaneous coronary artery dissection (SCAD) undergoing initial conservative management is still a matter of debate, with theoretical arguments in favour and against its use. The aims of this article are to assess the use of antiplatelet drugs in medically treated SCAD patients and to investigate the relationship between single (SAPT) and dual (DAPT) antiplatelet regimens and 1-year patient outcomes.

Methods and results: We investigated the 1-year outcome of patients with SCAD managed with initial conservative treatment included in the DIssezioni Spontanee COronariche (DISCO) multicentre international registry. Patients were divided into two groups according to SAPT or DAPT prescription. Primary endpoint was 12-month incidence of major adverse cardiovascular events (MACE) defined as the composite of all-cause death, non-fatal myocardial infarction (MI), and any unplanned percutaneous coronary intervention (PCI). Out of 314 patients included in the DISCO registry, we investigated 199 patients in whom SCAD was managed conservatively. Most patients were female (89%), presented with acute coronary syndrome (92%) and mean age was 52.3 ± 9.3 years. Sixty-seven (33.7%) were given SAPT whereas 132 (66.3%) with DAPT. ASA plus either clopidogrel or ticagrelor were prescribed in 62.9% and 36.4% of DAPT patients, respectively. Overall, a 14.6% MACE rate was observed at 12 months of follow-up. Patients treated with DAPT had a significantly higher MACE rate than those with SAPT [18.9% vs. 6.0% hazard ratios (HR) 2.62; 95% confidence intervals (CI) 1.22–5.61; P=0.013], driven by an early excess of non-fatal MI or unplanned PCI. At multiple regression analysis, type 2a SCAD (OR: 3.69; 95% CI 1.41–9.61; P=0.007) and DAPT regimen (OR: 4.54; 95% CI 1.31–14.28; P=0.016) resulted independently associated with a higher risk of 12-month MACE.

Conclusions: In this European registry, most patients with SCAD undergoing initial conservative management received DAPT. Yet, at 1-year follow-up, DAPT, as compared with SAPT, was independently associated with a higher rate of adverse cardiovascular events (ClinicalTrial.gov id: NCT04415762).


Intervista a Enrico Cerrato

San Luigi Gonzaga University Hospital, Orbassano, Torino

Gentile dottor Cerrato, ci può sintetizzare i risultati principali del vostro studio?
Il nostro studio deriva dal registro internazionale multicentrico osservazionale DISCO, un progetto iniziato ormai 3 anni fa nel tentativo di studiare maggiormente a fondo la dissezione coronarica spontanea (SCAD). Il registro è composto da una rete internazionale di 22 centri italiani e 4 spagnoli coordinati dalla cardiologia interventistica dell’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano e dell’Ospedale degli Infermi di Rivoli, ASLTO3 (Torino) e comprende un totale di 314 pazienti SCAD. Tra i centri spagnoli, l’Ospedale Clinico San Carlos di Madrid con già grande esperienza in questa patologia ha contribuito a formare un core-lab dedicato per analizzare uno a uno tutti i casi raccolti. In particolare, in questa sotto-analisi abbiamo voluto studiare l’uso effettivo dei farmaci antiaggreganti nei pazienti trattati in maniera conservativa, che, come riportato in letteratura, in caso di SCAD costituiscono la maggioranza dei casi. L’utilizzo della doppia antiaggregazione è indicato in classe I per qualsiasi sindrome coronarica acuta (SCA) nelle attuali Linee Guida. In caso di dissezione coronarica spontanea, però l’argomento è molto dibattuto: se da un lato gli antiaggreganti sembrano consigliati per ridurre il burden trombotico del falso lume, dall’altro dobbiamo pur sempre ricordarci che il responsabile dell’occlusione coronarica è un ematoma intramurale. Nella nostra esperienza, in effetti, abbiamo riscontrato molta eterogeneità nella gestione della SCAD con l’utilizzo della singola antiaggregazione (SAPT) nel 33% (93% ASA da sola) e della doppia (DAPT) nel 66% dei casi (99% ASA + clopidogrel o ticagrelor). I pazienti che hanno ricevuto la DAPT hanno sperimentato più eventi avversi (MACE: morte, re-infarto o rivascolarizzazione non programmata) rispetto a quelli in SAPT (19% vs 6%). Aggiustando per le potenziali variabili di confondimento conosciute, si è concluso che effettivamente i pazienti trattati con una doppia terapia antiaggregante erano associati a un rischio molto più alto (più di 4 volte) di eventi avversi a 12 mesi, una differenza già significativa durante il ricovero.

Interessante è l’analisi delle cause delle recidive ischemiche che si verificano in questi pazienti. In particolare la tipologia della dissezione sembra giocare un ruolo importante.
Esattamente. Dall’analisi multivariata svolta sul nostro registro, sia la DAPT che la tipologia 2° di SCAD sono risultati predittori indipendenti di eventi avversi. Anche il tipo 1 sembra mostrare una maggiore associazione con eventi avversi, pur non raggiungendo ancora la significatività statistica (p=0.08). Questo potrebbe essere dovuto proprio alla presenza di un ematoma circoscritto, potenzialmente in grado di propagarsi sia in senso anterogrado che retrogrado e di determinare eventi avversi. A tal proposito, considerando tutti i pazienti del registro DISCO, i nostri colleghi spagnoli hanno recentemente pubblicato su Eurointervention uno studio proprio sul ruolo prognostico della classificazione europea SCAD, individuando nelle tipologie 2A e 3 un maggiore rischio di MACE a lungo termine.

Correlato a questo dato fisiopatologico, di grande interesse clinico la vostra osservazione è che i pazienti con terapia antipiastrinica doppia (DAPT) hanno più eventi rispetto ai pazienti trattati con singola terapia antipiastrinica (SAPT). Benchè già molto ben argomentato nel paper, potrebbe ribadire quale può essere la spiegazione di questo effetto?
Il razionale su cui si fonda il nostro studio è stato proprio quello di evidenziare un possibile effetto dannoso della terapia antiaggregante in questi pazienti. Considerando la fragilità delle coronarie dei pazienti SCAD e l’alto tasso di fallimento procedurale e di complicanze riportato in letteratura, l’approccio conservativo in generale è quello consigliato. Questo, però, inevitabilmente ci porta a lasciare un ematoma potenzialmente instabile in coronaria che, favorito da una doppia terapia antiaggregante, potrebbe ulteriormente propagarsi e determinare un evento avverso. Inoltre, questa teoria è ulteriormente confermata dal fatto che i tipi angiografici di SCAD, maggiormente associati a eventi avversi, sono stati quelli che presentavano un ematoma circoscritto, in grado dunque di destabilizzarsi e propagarsi facilmente in concomitanza con un fattore trigger come la DAPT. Detto ciò, la nostra teoria ha bisogno di conferme aggiuntive tramite studi randomizzati controllati ad hoc, che permettano di studiare il ruolo dell’antiaggregazione nei pazienti SCAD, magari includendo anche un braccio “No antiaggregante” per permettere di escludere una terapia il cui razionale, in caso di dissezione spontanea coronarica, è tutt’altro che certo.

La vostra ricerca si rivolge ai pazienti che sono stati trattati medicalmente e non ai pazienti (circa il 30% dell’intera casistica) trattati con PCI. Pensa che, alla luce dei vostri dati, il trattamento con PCI debba essere perseguito almeno nei pazienti con SCAD di tipo 2A? Oppure basta evitare la DAPT per avere un buon successo clinico?
Sicuramente questo sarà il prossimo passo delle nostre ricerche. Siamo partiti studiando i pazienti trattati solo con terapia medica, perché costituiscono la maggioranza di una casistica già abbastanza limitata, però abbiamo già iniziato ad analizzare i possibili benefici di un approccio interventistico. Come dicevo precedentemente, la fragilità coronarica di questi pazienti li rende a rischio per eventuali complicanze peri-procedurali, per questo un approccio invasivo viene spesso messo da parte sia per il trattamento che per il follow-up (a favore della coro-TC, ad esempio). I recenti studi del nostro gruppo, però, hanno evidenziato un maggior rischio legato alla presenza di un ematoma intramurale circoscritto, il quale potrebbe quindi beneficiare di una stabilizzazione con PCI. Nella nostra esperienza abbiamo anche visto casi trattati con cutting balloon con successo primario, proprio per prevenire il rischio di squeezing dell’ematoma, però l’evidenza in letteratura è ancora molto bassa. A oggi quindi, se le caratteristiche cliniche del paziente ce lo permettono, è comunque consigliabile un approccio conservativo evitando la DAPT per migliorare l’outcome (soprattutto durante la degenza ospedaliera, dal momento che in caso di SCAD la stragrande maggioranza degli eventi avviene nei primi 10 giorni post procedura). In futuro il prossimo obiettivo sarà quello di individuare fattori predittivi di buon esito PCI, in cui il beneficio effettivo sia maggiore del rischio di complicanze.

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