Stefano De Servi

Stenosi aortica severa asintomatica con frazione di eiezione conservata: chirurgia o “vigile attesa”?

Le recenti Linee Guida ESC sulle malattie valvolari[1] raccomandano (classe I) la chirurgia nel paziente con stenosi aortica asintomatica qualora la frazione di eiezione sia <50% o compaiano sintomi durante un test da sforzo, oppure (classe IIa) quando la FE è <55% e la pressione arteriosa sistolica cali >20 mmHg durante il test ergometrico. Non esistono studi randomizzati di confronto tra chirurgia e “vigile attesa”, quando la FE è conservata e il test da sforzo negativo per sintomi.

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Edoxaban o antagonisti della vitamina K per il trattamento della fibrillazione atriale nei pazienti sottoposti a TAVI.

Nei pazienti con fibrillazione atriale in terapia anticoagulante sottoposti a procedura di TAVI, lo studio POPular TAVI ha mostrato come l’aggiunta di clopidogrel nei primi tre mesi successivi alla procedura aumenti il rischio emorragico rispetto, alla sola terapia anticoagulante. In quello studio solo un terzo dei pazienti assumeva un anticoagulante orale diretto (DOAC). Non ci sono studi di confronto tra DOAC e antagonisti della vitamina K (VKA) in pazienti sottoposti a TAVI.

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Coronaropatia trivasale: bypass aortocoronarico o PCI guidata da FFR?

Nei pazienti coronaropatici trivasali le Linee Guida, soprattutto sulla base dei dati dello studio SYNTAX, raccomandano l’intervento cardiochirurgico (CABG) piuttosto che l’angioplastica coronarica (PCI) quando il Syntax score è >22 (rispettivamente classe di raccomandazione I e III), mentre se il Syntax score è ≤22 la raccomandazione è ancora per il CABG se il paziente è diabetico (classe raccomandazione I; per PCI IIb) mentre entrambe le procedure sono raccomandate con classe I se non è presente diabete. Queste indicazioni, tuttavia, derivano da studi di confronto nei quali venivano prevalentemente utilizzati DES di prima generazione e non era valutato il significato fisiopatologico delle stenosi trattate mediante l’analisi della riserva frazionale di flusso (FFR).

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TAVI e necessità clinica di trattamento anticoagulante: a che punto siamo?

I risultati dello studio ENVISAGE-TAVI AF, mostrando un maggior rischio di sanguinamenti maggiori gastrointestinali (GI) con edoxaban rispetto a VKA, possono suscitare stupore in quanto apparentemente discordanti rispetto ai precedenti trial che hanno dimostrato un migliore profilo di sicurezza degli anticoagulanti orali diretti (DOAC) nella FA, sia se assunti in monoterapia, sia in associazione a una terapia anti-aggregante piastrinica. Tuttavia, alcune considerazioni sono necessarie per un più corretto inquadramento clinico dei risultati. Innanzitutto è importante osservare che, nonostante questo dato, l’endpoint clinico netto dello studio si è mantenuto simile nei due gruppi, poiché l’incidenza annuale della mortalità, dell’ictus e anche delle emorragie cerebrali è stata numericamente più bassa nel gruppo edoxaban. Il maggior tasso di emorragie GI nei pazienti con stenosi aortica e sottoposti a TAVI, arruolati nello studio ENVISAGE-TAVI AF, può dipendere da un differente profilo di rischio emorragico rispetto a quello dei pazienti arruolati nei trial relativi alla FA, come dimostrato da un CHADS-VASC score più elevato legato a un’età più avanzata e a un maggior carico di comorbidità. Inoltre, è ben noto che i pazienti con stenosi aortica presentano una intrinseca vulnerabilità dal punto di vista dei sanguinamenti GI, in quanto più frequentemente sono affetti da una malattia di von Willebrand acquisita e malformazioni arterovenose.

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Trattamento elettrico dello scompenso cardiaco associato ad aritmie o a disturbi di conduzione.

Tra i pazienti con scompenso cardiaco a FE ridotta, un terzo circa ha problemi di anomalie di conduzione, un terzo ha fibrillazione atriale e circa la metà ha frequente extrasistolia ventricolare. Questi disturbi elettrici possono essere la causa primitiva dello scompenso, oppure contribuiscono al suo manifestarsi. La resincronizzazione miocardica (CRT) ha un ruolo ben definito nel trattamento dello scompenso associato a disturbi di conduzione. Nei pazienti con fibrillazione atriale associata a scompenso, studi clinici hanno mostrato l’efficacia dell’ablazione transcatetere per il controllo del ritmo e dell’ablazione del nodo AV associata a CRT per il controllo della frequenza. L’ablazione dell’extrastolia ventricolare, quando molto frequente e causa di scompenso, può migliorare la funzione ventricolare. Nonostante questi aspetti terapeutici siano ampiamente raccomandati dalle Linee Guida, la terapia elettrica dello scompenso risulta ancora notevolmente sottoutilizzata.

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Prognostic value of systemic inflammatory response syndrome after transcatheter aortic valve implantation.

L’endpoint primario dello studio era la mortalità a 30 giorni e a 24 mesi. La SIRS si è sviluppata in 27 pazienti dopo la TAVI (20%). A 30 giorni, la SIRS si è verificata più frequentemente nei pazienti con esito avverso a breve termine (60% vs. 17%; p=0.001). A 24 mesi, la mortalità è stata del 19% e la SIRS è risultata un predittore indipendente di esito avverso a lungo termine [hazard ratio [HR]: 3.70, 95% intervallo di confidenza [CI]: 1.5-9.0; p=0.004], insieme alle complicanze vascolari maggiori (HR: 4.0; 95% CI: 1.6-9.9; p=0.003), ai sanguinamenti significativi (HR: 6.4; 95% CI: 1.5-28; p=0.013) e all’ipertensione polmonare al baseline (HR 2.4; 95% CI: 1.05-5.6; p=0.039). In conclusione, la SIRS post-TAVI si è verificata più frequentemente nei pazienti deceduti a 30 giorni di follow-up, risultando un predittore di mortalità a lungo termine insieme alle complicanze vascolari, ai sanguinamenti significativi e all’ipertensione polmonare.

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Associazione temporale tra episodi di fibrillazione atriale subclinica e rischio di ictus cerebrale.

La fibrillazione atriale (FA), rilevata all’ECG tradizionale in pazienti sintomatici, è un importante fattore di rischio per ictus cerebrale. In questi ultimi anni si sono accumulati studi che hanno dimostrato che anche gli episodi di FA asintomatica, rilevata da pacemakers o altri device a permanenza (CIEDs) siano predittivi di ictus cerebrale, sebbene con “potenza’ meno forte rispetto agli episodi di FA sintomatica rilevata tradizionalmente. Tuttavia, non sono state riscontrate evidenze a supporto dell’ipotesi che l’ictus cerebrale sia temporalmente preceduto da episodi di FA subclinica.

Lo studio delle relazioni temporali tra episodi di FA, anche asintomatica, e insorgenza di ictus cerebrale è di estrema importanza per due motivi principali. Il primo motivo è di ordine fisiopatologico: l’eventuale dimostrazione di una qualche associazione temporale tra episodio di FA e insorgenza di ictus cerebrale, darebbe forza all’ipotesi tradizionale dell’ictus come possibile conseguenza diretta di un trombo sviluppatosi nel cuore durante la FA e successivamente distaccatosi (ipotesi dell’ictus cardio-embolico). Al contrario, l’eventuale assenza di tale associazione temporale potrebbe far pendere la bilancia verso l’ipotesi alternativa che vedrebbe FA e ictus cerebrale come co-fenomeni di una situazione patologica di base ad effetti sia proaritmici che pro-trombotici. Il secondo motivo, non meno importante, è di ordine terapeutico: nei pazienti portatori di CIEDs, nei quali si evidenzino episodi di FA asintomatica, è giusto somministrare farmaci anticoagulanti allo scopo di prevenire l’ictus? In altri termini, il beneficio sulla riduzione dell’ictus cerebrale in questi pazienti giustificherebbe il rischio emorragico legato alla terapia anticoagulante?

Gli studi finora disponibili hanno avuto il grosso limite della relativamente scarsa numerosità della casistica. Uno studio, eseguito solo in soggetti di sesso maschile portatori di defibrillatori impiantabili, ha suggerito un aumento del rischio di ictus cerebrale nei 30 giorni successivi all’insorgenza di FA subclinica di lunga durata.

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Nefropatia acuta da mezzo di contrasto dopo pci: quanto può servire uno score di rischio per predirne l’insorgenza?

La nefropatia acuta da contrasto (AKI) è una nota e temuta complicanza delle procedure di PCI. Al suo verificarsi contribuiscono la presenza di comorbilità, in particolare una malattia cronica renale preesistente e il diabete, la complessità delle procedure, la quantità di mezzo di contrasto iniettato. Per ridurre e mitigare l’incidenza di questo fenomeno, che ha un peso prognostico non trascurabile, gli operatori impiegano una serie di accorgimenti quali l’utilizzo di mezzi di contrasto a bassa osmolarità, l’espansione del volume, la sospensione cautelativa di alcuni farmaci. Per predire l’insorgenza di AKI sono stati proposti numerosi score di rischio, alcuni tuttavia un po’ datati, altri complessi e di non facile utilizzo.

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L’infarto miocardico dopo angioplastica coronarica: quale definizione utilizzare?

L’infarto miocardico periprocedurale (PPMI) è una complicanza non infrequente delle procedure di angioplastica coronarica (PCI) che limita l’impatto clinico favorevole della procedura. Ne sono state proposte alcune definizioni che differiscono tra loro, sia per le soglie di incremento postprocedurale della troponina (cTn), che per la presenza o meno di criteri ancillari che indichino il rischio di complicanze angiografiche o di nuova ischemia miocardica. Tuttavia, non c’è consenso su quale definizione utilizzare, anche se si concorda sull’impatto prognostico che una corretta definizione deve avere, in particolare sulla successiva mortalità cardiovascolare. Il problema non è di poco conto, in quanto l’incidenza di PPMI può variare dal 2% al 18% in base alle diverse definizioni, modificando, a seconda di quella utilizzata, il risultato di trial che confrontino la PCI sia con la terapia medica che con il bypass aortocoronarico.

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L’anticoagulazione nei pazienti con COVID-19

Il Covid-19 è caratterizzato da una particolare reattività delle cellule infiammatorie mononucleari, con conseguente rilascio citochinico, e da endotelite multiorgano, condizioni che predispongono a una alta incidenza di fenomeni trombotici arteriosi, venosi che raggiunge il 35% nei pazienti critici. Studi osservazionali e randomizzati hanno verificato se una anticoagulazione a piena dose possa migliorare l’outcome dei pazienti rispetto alla semplice profilassi con eparina, riscontrando, limitatamente ai pazienti che non necessitino di un supporto respiratorio, un possibile beneficio dell’eparina a dosaggio terapeutico, associato tuttavia a un aumento del bleeding. Lo studio internazionale randomizzato FREEDOM COVID (NCT04512079) sta verificando in 3.600 pazienti ospedalizzati per Covid-19 non in fase critica, quale di tre trattamenti (enoxaparina a dose profilattica, enoxaparina a dose terapeutica o apixaban a dose terapeutica) si associ a una riduzione di un outcome composito a 30 giorni che comprende mortalità per ogni causa, peggioramento respiratorio o emodinamico che richieda ricovero in terapia intensiva, tromboembolismo sistemico o polmonare, ictus ischemico. Il completamento dell’arruolamento è stimato per luglio 2022.

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