In una immagine…

Le manifestazioni cliniche della amiloidosi.

La diagnosi di amiloidosi cardiaca presuppone che il cardiologo riconosca alcuni aspetti clinici (“red flags”) che possono essere distinti in cardiaci (ipertrofia ventricolare sinistra, alterata funzione diastolica, fibrillazione atriale, disturbi del sistema di conduzione, elevazione dei marker cardiaci) ed extracardiaci (tunnel carpale, interventi per protesi al ginocchio o all’anca, pregressi interventi alla spalla, proteinuria, neuropatia periferica). Difficile distinguere sul piano clinico la amiloidosi AL (da catene leggere delle immunoglobuline) dalla forma ATTR (da accumulo di transtiretina) se non per la presenza, solo in questa seconda forma, della rottura del tendine del bicipite e la stenosi spinale. Benché la risonanza magnetica non sia né necessaria né sufficiente per porre diagnosi di amiloidosi cardiaca, alcuni aspetti quali l’aumento del volume extracellulare, l’abnorme cinetica del gadolinio e il suo “late enhancement” possono generare il sospetto diagnostico. Il primo passo dell’algortimo diagnostico consiste nella ricerca di una proteina monoclonale per escludere una alterazione plasmacellulare (che indirizzerebbe verso una possibile amiloidosi di tipo AL). Se presente, è necessario consultare un ematologo per il prosieguo dell’iter diagnostico. Se assente, la SPECT con tecnezio pirofosfato rappresenta lo step successivo. Se positiva, il test genetico preciserà se siamo di fronte a una ATTRv (da varianti della transtiretina, la più frequente dovuta alla sostituzione di isoleucina per valina in posizione 122 della proteina) o a una forma TTRwt (“wild type” o forma senile). Il risultato del test ci dirà se i familiari andranno indagati o se potremo usare i nuovi farmaci “mRNA silencers” (approvati solo per le forme ATTR-v) per curare una eventuale neuropatia periferica.

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Come si è modificata l’attesa di vita (anni) in Europa e in Italia con il Covid?

La crescita maggiore di attesa di vita tra 2020 e 2021 è stata osservata in Belgio (+1,1%); la decrescita maggiore in Slovacchia e Bulgaria (-2,2%). In Italia l’attesa di vita maggiore nel 2021 si è registrata nelle provincie di Firenze (83.9) e Treviso (83.8). La minore attesa di vita invece si è verificata nelle provincie di Caltanissetta e Siracusa (80.2). La crescita maggiore di attesa di vita tra il 2020 e il 2021 si è registrata a Bergamo (da 79,7 a 83,3 anni) e a Cremona (da 79,7 a 82,8 anni). La decrescita maggiore ad Agrigento (da 81,8 a 80,3 anni) e a Campobasso (da 82,4 a 81,1 anni).

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Inclisiran and cardiovascular events: a patient-level analysis of phase III trials

Gli anticorpi monoclonali che hanno come target il PCSK9i circolante sono terapie potenti che riducono il livello di colesterolo LDL del 50-70%. Inclisiran è uno “small interfering RNA” (siRNA), classe di molecole di RNA a doppio filamento capaci di degradare l’mRNA dopo la trascrizione impedendo la produzione di proteine, nel caso specifico di quella epatica di PCSK9. Gli studi di fase III, sinora effettuati, hanno incluso pazienti con ipercolesterolemia familiare eterozigote (ORION-9), malattia cardiovascolare aterosclerotica (ORION-10) e soggetti ad alto rischio in prevenzione primaria (ORION-11), mostrando una riduzione marcata di colesterolo LDL.

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Iron deficiency and cardiovascular disease.

La carenza di ferro (Iron Deficiency – ID) può essere distinta in una forma “assoluta”, caratterizzata da una diminuzione delle scorte di ferro dell’organismo secondaria a insufficiente uptake nutrizionale, ostacolato assorbimento o perdite croniche; e in una forma “funzionale” (FID) dovuta a uno stato infiammatorio cronico con conseguente rilascio di epcidina, una proteina di fase acuta prodotta dal fegato che regola la degradazione della ferroportina, proteina transmembrana che trasporta il ferro assunto con il cibo dalla mucosa intestinale al sangue e modula il rilascio di ferro dai macrofagi nel fegato e nella milza. Nelle malattie cardiovascolari la ID è “funzionale”, mentre nello scompenso cardiaco essa è di origine mista in quanto può giocare un ruolo importante anche il difetto di assorbimento legato alla congestione vasale.

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Cosa devono sapere i cardiologi sui disturbi del sonno.

Ricordiamo:
– il 75% dei pazienti con ipertensione notturna soffre di OSA (apnee notturne). La mancanza quindi del “fenomeno di dipping” all’Holter pressorio deve insospettire il cardiologo. Il “non-dipping” è presente nel 48-84% dei pazienti con OSA, anche in assenza di ipertensione. L’uso di CPAP è in grado di sopprimere il fenomeno e di ridurre la pressione arteriosa notturna;
– l’OSA non trattata aumenta il rischio di fibrillazione atriale, mentre il suo trattamento ne riduce gli episodi. Il cardiologo attento dovrebbe ricercare la presenza di OSA, in ogni paziente sottoposto a cardioversione o ablazione per fibrillazione atriale, soprattutto se presenta obesità;
– i pazienti scompensati con OSA hanno una ridotta sopravvivenza e un maggior numero di ospedalizzazioni, rispetto a quelli senza OSA. L’aumento dell’attività, simpatica, le desaturazioni notturne e le variazioni di pressione intratoracica peggiorano l’emodinamica cardiaca;
– la presenza di insonnia è un fattore di rischio cardiovascolare, in particolare per l’ipertensione. Il suo trattamento rappresenta una nuova frontiera per promuovere il benessere cardiovascolare.

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The dawn of a new era of targeted lipid-lowering therapies.

Il trattamento delle dislipidemie sta subendo una rapida evoluzione. Il target terapeutico principale è il colesterolo LDL, ma altre lipoproteine contenenti apo-B possono penetrare l’intima dando origine al processo aterosclerotico. È stato osservato che il rischio cardiovascolare è meglio riflesso dal valore di colesterolo non-HDL o dalla misurazione diretta delle apo-B, piuttosto che dal colesterolo LDL. Terapie basate su anticorpi monoclonali e su “RNA engineering” permettono l’inibizione selettiva di proteine specifiche riducendo drasticamente i livelli di colesterolo LDL nel sangue. Inclisiran è un siRNA (small interfering RNA) coniugato a un residuo terminale N-acetil-galattosaminico che permette al farmaco di legarsi a recettori specifici delle cellule epatiche inibendo il PCSK9. Lo studio ORION-4 sta valutando gli effetti di questo farmaco sulla mortalità e morbilità cardiovascolare. Esso viene somministrato due volte l’anno e determina una riduzione di circa il 50% del colesterolo LDL e una diminuzione significativa della lipoproteina(a) [Lp(a)], un tipo di LDL nella quale una apoproteina (apoA) è legata ad apoB e correlata a elevato rischio cardiovascolare e allo sviluppo di valvulopatia aortica calcifica

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Scompenso cardiaco: figli e figliastri

Nel 1993 Brutsaert e coll definirono lo scompenso cardiaco ad origine diastolica una condizione derivante da una resistenza al riempimento ventricolare di uno o entrambi i ventricoli con conseguenti sintomi di congestione e spostamento verso l’alto della curva pressione/volume. Il termine “scompenso cardiaco diastolico” fu sostituito da quello, tuttora in uso, di scompenso cardiaco a frazione di eiezione conservata (HFpEF). La prima, relativamente ampia serie di pazienti HFpEF fu pubblicata da Dougherty et al nel 1984: essi rappresentavano circa un terzo di tutti i pazienti ricoverati con scompenso di cuore riportati in quell’articolo. L’incidenza nelle casistiche più recenti è di circa il 50%. La diagnosi può essere facilitata dall’uso di uno score proposto in un documento di consenso dell’Heart Failure Association della Società Europea di Cardiologia (vedi Figura). La terapia si è basata per anni sull’uso di diuretici e sul controllo delle patologie concomitanti (ipertensione, obesità). Studi che hanno proposto l’utilizzo di spironolattone e di sacubitril/valsartan non hanno dato esito positivo. Al contrario, lo studio Emperor-Preserved ha mostrato che empaglifozin, un inibitore di SGLT2, ha ridotto del 21% rispetto a placebo l’endpoint composito di morte cardiovascolare e ospedalizzazione per scompenso in una ampia popolazione di pazienti con HFpEF[4]. Risultati simili sono stati recentemente ottenuti con dapaglifozin nello studio DELIVER.

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La terapia della pericardite acuta e delle sue recidive

Recidive di pericardite si verificano nel 15-30% dei pazienti dopo un episodio iniziale e in oltre
il 40% di essi dopo una prima recidiva. Spesso questi nuovi episodi sono di difficile trattamento in quanto refrattari alla terapia anti-infiammatoria tradizionale. In questi casi (pazienti dipendenti da steroidi e refrattari alla colchicina) le Linee Guida ESC(1) contemplano l’uso dell’antagonista del recettore dell’interleuchina-1 anakinra, sulla base di alcune esperienze aneddotiche positive. Recentemente anakinra si è dimostrato efficace nel ridurre significativamente le recidive di pericardite in pazienti dipendenti da steroidi e refrattari alla colchicina (AIRTRIP trial -2-). È stato sufficiente randomizzare 21 pazienti per ottenere un significativo risultato clinico. È stata dimostrata efficacia clinica anche per rinolacept, un farmaco con analogo meccanismo d’azione. Se da un lato questi farmaci rappresentano un vero “paradigm shift” nel trattamento delle recidive di pericardite resistenti alla colchicina e dipendenti dall’uso di steroidi, restano problemi ancora aperti, quali la durata della terapia e il loro potenziale utilizzo in alternativa all’uso dei corticosteroidi per evitarne gli effetti collaterali. In realtà questa possibilità è avanzata in un’altra recente review (Sachin Kumar, MD; Shameer Khubber, MD; Reza Reyaldeen, MD; Ankit Agrawal, MD; Paul C. Cremer, MD; Massimo Imazio, MD; Deborah H. Kwon, MD; Allan L. Klein, MD Advances in Imaging and Targeted Therapies for Recurrent Pericarditis A Review. JAMA Cardiol. doi:10.1001/jamacardio.2022.2584. Published online August 17, 2022). In essa si propone una flow chart basata sulla presenza di un fenotipo infiammatorio che utilizza l’imaging (presenza di “late gadolinium enhancement” alla risonanza magnetica) e il laboratorio (innalzamento della PCR) per introdurre più precocemente (dalla seconda recidiva) una terapia con antagonisti del recettore della interleuchina-1 anzichè utilizzare i corticosteroidi.

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Il meccanismo protettivo degli inibitori di SGLT2 a livello renale

Gli inibitori di SGLT2 aumentano l’escrezione di glucosio e sodio. Di conseguenza le cellule specializzate della macula densa che si trovano nel tratto ascendente dell’ansa di Henle alla sua giunzione col tubulo distale, a contatto con i glomeruli, segnalano l’aumentata concentrazione di sodio a livello tubulare e, attraverso il feedback glomerulotubulare, attivano i recettori dell’adenosina che costringono le arteriole afferenti glomerulari e, inibendo la produzione di renina, provocano una dilatazione delle arteriole efferenti.
La vasocostrizione delle arteriole afferenti e la dilatazione delle efferenti diminuisce la pressione idrostatica intraglomerulare, e riduce l’iperfiltrazione glomerulare, esplicando in tal modo un’azione protettiva a livello renale.

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