È meglio continuare la terapia antibiotica per via endovenosa oppure passare alla terapia antibiotica per via orale dopo la fase acuta nei pazienti con endocardite batterica?

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Indice

Caso clinico

Un soggetto maschio di 33 anni, con storia clinica consistente per abuso di sostanze stupefacenti (cocaina, fentanil) si era presentato in ospedale circa 2 settimane prima accusando febbre, brividi e astenia. Presentava una temperatura corporea di 38,4 °C, frequenza cardiaca 110 bpm, pressione arteriosa 110/80 mmHg, frequenza respiratoria 20 respirazioni/minuto e saturazione di O2 98% in aria ambiente. Era presente un soffio diastolico in decrescendo sul focolaio aortico e alcune piccole petecchie sul letto ungueale. Una emocoltura aveva mostrato batteriemia da Stafilococco aureo, sensibile alla meticillina. Un ecocardiogramma trans-esofageo aveva mostrato una piccola vegetazione di 0,2 cm sulla valvola aortica e un rigurgito aortico lieve. Dopo 48 ore di terapia antibiotica per via endovenosa, l’emocoltura si è negativizzata. Si è deciso, quindi, di continuare la terapia antibiotica per via endovenosa per 6 settimane. Tuttavia, dopo 2 settimane di trattamento il paziente ha espresso seri dubbi sulla possibilità di restare in ospedale fino al termine della sesta settimana a completare la terapia antibiotica endovenosa.
Due possibilità:

  1. raccomandiamo al paziente di continuare la terapia antibiotica per via endovenosa fino alla sesta settimana?
  2. passiamo alla terapia antibiotica per via orale (al termine delle 2 settimane iniziali di terapia endovenosa)?

Argomenti a favore della continuazione della terapia antibiotica per via endovenosa fino alla sesta settimana.

  1. La terapia antibiotica per via endovenosa assicura livelli circolanti di antibiotico più elevati e maggiormente prevedibili rispetto alla terapia orale. I più alti livelli circolanti di antibiotico assicurerebbero una maggiore risposta sui batteri concentrati all’interno delle vegetazioni e ‘protetti’ in qualche modo dalla risposta immunitaria del paziente.
  2. L’ospedalizzazione più prolungata, allo scopo di praticare la terapia endovenosa, proteggerebbe il paziente in misura maggiore da eventuali complicazioni come aritmie e embolie importanti. Tale considerazione sarebbe ancora più valida (ma non è questo il caso) in pazienti instabili, nei quali non sarebbe da escludere un’opzione chirurgica.
  3. Un recente ‘Statement’ dell’American Heart Association (Circulation 2015; 132:1435-86) lista la nafcillina, l’oxacillina e la cefazolina come eventuali trattamenti da praticare per 6 settimane per via endovenosa nei casi di endocardite da staffilococo aureo sensibile alla meticillina (il caso di questo paziente).
  4. Se è vero che lo studio POET (N Engl J Med 2019; 380:1373-4) aveva dimostrato la noninferiorità della terapia antibiotica orale dopo l’iniziale terapia endovenosa, è anche vero che si trattava per la maggior parte di endocarditi da streptococco, quindi non applicabili al caso in questione. Non solo, nello studio POET venivano usati antibiotici per via orale di cui era stata testata l’efficacia sul germe in questione (dicloxacillina, amoxicillina, moxifloxacina, linezolid), aspetto non applicabile al caso in questione. In questo studio, solo 47 pazienti avevano avuto endocardite da staffilococco aureo (come nel caso del nostro paziente).
  5. Infine, non sappiamo bene cosa farà questo paziente una volta a casa. Assumerà gli antibiotici con regolarità? Continuerà a usare sostanze illecite? Sarà seguito correttamente da un punto di vista medico? Si tratta di dubbi importanti, con implicazioni che potrebbero arrivare a inficiare l’utilità del trattamento antibiotico endovenoso che al momento sembra avere successo.

Argomenti a favore del passaggio alla terapia antibiotica per via orale dopo le 2 settimane iniziali di terapia endovenosa.

  1. Nonostante le indicazioni mediche, la terapia endovenosa non viene completata da tutti i pazienti. Si è visto che solo un quarto dei pazienti con endocardite da Stafilococco aureo segue lo schema di terapia antibiotica per via endovenosa come raccomandato in ospedale, e tra questi pazienti solo 70 su 100 completano il ciclo di terapia antibiotica endovenosa.
  2. Chi non completa il ciclo di terapia antibiotica endovenosa, e rimane senza terapia, presenta una mortalità più elevata. Potrebbe essere questo il caso del paziente in questione, che ha mostrato molte perplessità a completare il ciclo di 6 settimane di terapia endovenosa.
  3. Nello studio POET, che aveva dimostrato la non-inferiorità della terapia antibiotica orale dopo l’iniziale terapia endovenosa, venivano arruolati solo pazienti senza febbre e stabilizzati da un breve ciclo di antibiotico per via endovenosa, esattamente come nel nostro paziente. Questi pazienti, assegnati alla terapia orale, non venivano lasciati a sé, ma sottoposti a regolari visite di controllo 3 volte per settimana.
  4. Non possiamo presumere che il nostro paziente non segua la terapia orale con continuità. Dobbiamo, anzitutto, parlare attentamente con il nostro paziente prima della dimissione e prevedere una serie di visite di controllo che assistano il paziente anche in termini di prevenzione dell’uso di sostanze illecite.
  5. Nella scelta dell’antibiotico per via orale dobbiamo anche considerare le interazioni farmacologiche. Ad esempio, la rifampicina potrebbe interagire con il metadone, ma l’interferenza è minima. I fluorochinolonici potrebbero essere trattamenti di scelta. La levofloxacina potrebbe essere preferita alla morifloxacina.

Il parere di Fabio Chirillo

UOC Cardiologia Ospedale Bassano del Grappa (VI)

L’endocardite infettiva (EI) rientra a pieno titolo tra le infezioni maggiori dal momento che, pur trattandosi di una malattia non contagiosa, a genesi prevalentemente batterica e, quindi, potenzialmente curabile con terapia antibiotica, continua a presentare tassi inaccettabilmente alti di mortalità intra-ospedaliera (15-20%) e di mortalità a un anno (40%)[1]Murdoch DR, Corey GR, Hoen B, Miró JM, et al. Clinical presentation, etiology, and outcome of infective endocarditis in the 21st century: the International Collaboration on Endocarditis-Prospective … Continua a leggere. Le lesioni tipiche dell’EI sono le vegetazioni endocardiche: si tratta di masserelle di diversa forma e dimensione (da pochi millimetri ad alcuni centimetri) in cui i batteri sono immersi in una matrice di fibrina, residui valvolari, eritrociti, elementi corpuscolati del sangue, polisaccaridi e proteine (adesine) prodotti dagli stessi batteri che ne favoriscono l’adesione alle strutture valvolari, riducendo nel contempo, le capacità del sistema immunitario di eradicare l’infezione. Ne deriva la necessità di impostare una terapia antibiotica che realizzi un’intensa attività battericida per periodi prolungati di tempo (4-6 settimane). Tale risultato può essere ottenuto solo tramite somministrazione endovenosa e monitoraggio delle concentrazioni plasmatiche degli antibiotici secondo schemi che si adeguano alle proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche dei singoli farmaci. La massima attività battericida si ottiene con gli antibiotici la cui efficacia è tempo-dipendente (betalattamine- glicopeptidi) tramite molteplici (4-6) somministrazioni nella giornata o, addirittura, con una infusione continua. Infatti, il determinante di efficacia è il tempo in cui la concentrazione plasmatica dell’antibiotico rimane superiore alla minima concentrazione inibente (MIC). Per valutarne l’efficacia è utile misurare la concentrazione di antibiotico a valle (cioè prima della somministrazione successiva): la concentrazione minima dovrebbe essere superiore alla MIC. Di contro con gli antibiotici concentrazione-dipendente (aminoglicosidi, fluorochinoloni) la massima attività battericida si ottiene quando la concentrazione massima di antibiotico è superiore alla MIC: la somministrazione avviene, quindi, con una mono-somministrazione giornaliera e il parametro farmacocinetico da valutare è il picco di concentrazione plasmatica (misurata 30 minuti dopo la somministrazione) che dovrebbe essere di molto superiore alla MIC. Tali schemi posologici sono realizzabili solo in ambito ospedaliero, per cui nei pazienti affetti da EI è necessaria, generalmente, una degenza prolungata. Questo comporta notevoli costi di gestione, occupazione prolungata di posti letto e senso di frustrazione nei pazienti che, una volta ottenuta la stabilizzazione clinica, restano in ospedale fondamentalmente con il solo scopo di assumere la terapia. Per ovviare a questa situazione sono stati compiuti, in passato, alcuni tentativi di terapia antibiotica orale dell’EI[2]Al-Omari A, Cameron DW, Lee C, Corrales-Medina VF. Oral antibiotic therapy for the treatment of infective endocarditis: a systematic review. BMC Infect Dis. 2014 Mar 13;14:140., che, tuttavia, hanno sortito esito positivo solamente nella cura di pazienti tossico-dipendenti affetti da endocardite del cuore destro[3]Heldman AW, Hartert TV, Ray SC, et al. Oral antibiotic treatment of right-sided staphylococcal endocarditis in injection drug users: prospective randomized comparison with parenteral therapy. Am J … Continua a leggere. Nel 2019 è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine[4]Iversen K, Ihlemann N, Gill SU, et al. Partial Oral versus Intravenous Antibiotic Treatment of Endocarditis. N Engl J Med. 2019;380:415-24. il primo trial randomizzato (POET Partial Oral versus Intravenous Antibiotic Treatment of Endocarditis) in cui pazienti affetti da endocardite del cuore sinistro, provocata da svariati agenti eziologici tra cui Stafilococco aureo, Stafilocchi coagulasi-negativi, Enterococchi e Streptococchi, venivano trattati inizialmente con terapia antibiotica endovenosa. I pazienti in cui, in media dopo 10 giorni di terapia, erano evidenti segni di efficacia della stessa (scomparsa della febbre, negativizzazione delle emocolture, riduzione degli indici di flogosi) e in cui l’ecocardiogramma transesofageo escludeva complicanze perivalvolari (ascessi, fistole, pseudoaneurismi) venivano assegnati o alla prosecuzione del trattamento endovenoso in ambito ospedaliero o al trattamento orale che comprendeva almeno due tipi di farmaco con diverso meccanismo antimicrobico con un dosaggio che veniva stabilito in base a test di sensibilità in vitro. Il trattamento orale veniva assunto nell’80% dei pazienti eleggibili a domicilio. Alla fine del periodo di osservazione non venivano registrate differenze significative (il trial era impostato per dimostrare la noninferiorità del trattamento orale) per quanto riguardava l’end-point primario definito da un insieme di mortalità per tutte le cause, necessità di intervento cardiochirurgico non programmato, eventi embolici o recidiva di batteriemia entro 6 mesi dalla fine del trattamento antibiotico. Inoltre a un follow-up prolungato di 3.5 anni l’end-point combinato primario si era verificato nel 38.2% dei pazienti con trattamento ev e nel 26.4% dei pazienti trattati con antibiotici orali (HR 0.64; 95% CI 0.45-0.91)[5] Bundgaard H, Ihlemann N, Gill SU, et al. Long-term outcomes of partial oral treatment of endocarditis. N Engl J Med. 2019;380:1373-4.. Questo dato veniva interpretato dagli Autori come la conferma della validità del trattamento orale; in realtà conferma i dubbi che si possono nutrire (al di là dei dati pubblicati) sulla perfetta corrispondenza del profilo di rischio delle due popolazioni. Venendo al caso del Sig. Miller[6]Chowdhury J, Patel R, Chambers H. Oral versus Intravenous Antibiotics for Endocarditis. N Engl J Med. 2021;385:1141-3. il Dr Chambers propone, sulla base dei risultati del POET, che il paziente venga assegnato dopo una degenza ospedaliera non complicata di due settimane a un regime di terapia orale domiciliare. I farmaci che potrebbero essere impiegati comprendono dicloxacillina (1gx4) o amoxicillina più rifampicina (600 mg bid) oppure moxifloxacina (400 mg od) più rifampicina. Il Dr Patel consiglia, invece, di tenere ricoverato il paziente per sottoporlo alla terapia antibiotica tradizionale per via endovenosa. Chi ha ragione? A mio avviso, sicuramente non il Dr Chambers. È pur vero che nel trial POET [7]Iversen K, Ihlemann N, Gill SU, et al. Partial Oral versus Intravenous Antibiotic Treatment of Endocarditis. N Engl J Med. 2019;380:415-24. 47 pazienti con EI da Stafilococco aureo sono stati assegnati alla terapia orale, ma è anche vero che nel trial sono stati arruolati solo 5 (!) pazienti tossicodipendenti di cui 2 assegnati al braccio terapia orale. Non esistono, quindi, evidenze convincenti che la terapia orale funzioni in questo tipo di pazienti che si caratterizza per una bassa compliance alla terapia al di fuori dell’ospedale e un’alta incidenza di ripresa dell’abuso di stupefacenti per via iniettiva. Inoltre, l’aggiunta della rifampicina nel trattamento delle endocarditi da Stafilococco aureo su valvola nativa non è scevra da rischi, in quanto si associa a un alto tasso di effetti indesiderati (in primo luogo epatotossicità) e a una riduzione significativa della sopravvivenza[8]Riedel DJ, Weekes E, Forrest GN. Addition of Rifampin to Standard Therapy for Treatment of Native Valve Infective Endocarditis Caused by Staphylococcus aureus. Antimicrob Agents Chemother 2008; 52: … Continua a leggere. C’è inoltre da considerare l’alta probabilità che il paziente possa avere un decorso clinico complicato: la formazione di ascessi perivalvolari è più frequente nelle endocarditi della valvola aortica, rispetto a tutte le altre valvole cardiache e lo Stafilococco aureo è il germe più frequentemente implicato nella formazione di ascessi perivalvolari. Inoltre, la diagnosi tramite ecocardiografica transesofagea di ascesso nelle fasi iniziali di malattia è difficile (spesso si nota solo un ispessimento della parete aortica di difficile interpretazione) e necessita di un follow-up clinico-strumentale molto stretto. Infine, in caso di peggioramento del vizio aortico, che si può verificare repentinamente per perforazione di una o più cuspidi, il paziente può andare incontro a insufficienza ventricolare sinistra (fino all’edema polmonare) che difficilmente può essere trattata tempestivamente in ambito extraospedaliero. In questo caso una valida alternativa al ricovero ospedaliero prolungato potrebbe essere rappresenta dalla cosiddetta OPAT (Outpatient Parenteral Antibiotic Therapy[9]Rajaratnam D, Rajaratnam R. Outpatient Antimicrobial Therapy for Infective Endocarditis is Safe. Heart Lung Circ 2021;30:207-15.. Il paziente, una volta stabilizzato (quindi dopo 2 o, meglio, 3 settimane) potrebbe essere sottoposto all’impianto di un catetere venoso e rinviato a domicilio con l’impegno di presentarsi ogni giorno, alla stessa ora, per la somministrazione della terapia antibiotica che, in questo caso, potrebbe essere rappresentata dalla daptomicina (6 mg/Kg) in mono somministrazione giornaliera[10]Baddour LM, Wilson WR, Bayer AS, et al. Infective Endocarditis in Adults: Diagnosis, Antimicrobial Therapy, and Management of Complications: A Scientific Statement for Healthcare Professionals From … Continua a leggere. In questo modo l’aderenza terapeutica è garantita e il paziente può essere controllato anche con esami di laboratorio ed ecocardiogrammi, a seconda del giudizio clinico, in modo da cogliere precocemente segni di inefficacia della terapia. Ovviamente ciò comporta un’adeguata organizzazione da parte della struttura sanitaria che prende in carico il paziente, una non eccessiva distanza tra il domicilio del paziente e l’ospedale e il fatto che il paziente non utilizzi la via venosa per iniettarsi sostanze stupefacenti. A questo proposito sono state pubblicate delle esperienze in cui particolari “sigilli” venivano apposti sul catetere venoso alla fine di ogni somministrazione di antibiotico per controllare il giorno successivo eventuali manomissioni da parte del paziente. I risultati riportati in letteratura sono buoni. In particolare nei tossicodipendenti[11]Fanucchi LC, Walsh SL, Thornton AC, Lofwall MR. Integrated outpatient treatment of opioid use disorder and injectionrelated infections: A description of a new care model. Prev Med 2019 Nov;128:105760. la somministrazione di antibiotici può essere associata a quella di alcuni farmaci (tra cui la buprenorfina) che aiutino il paziente a superare la crisi di astinenza dagli oppioidi.

È meglio continuare la terapia antibiotica per via endovenosa oppure passare alla terapia antibiotica per via orale dopo la fase acuta nei pazienti con endocardite batterica?

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Bibliografia

Bibliografia
1 Murdoch DR, Corey GR, Hoen B, Miró JM, et al. Clinical presentation, etiology, and outcome of infective endocarditis in the 21st century: the International Collaboration on Endocarditis-Prospective Cohort Study. Arch Intern Med 2009;169:463–73.
2 Al-Omari A, Cameron DW, Lee C, Corrales-Medina VF. Oral antibiotic therapy for the treatment of infective endocarditis: a systematic review. BMC Infect Dis. 2014 Mar 13;14:140.
3 Heldman AW, Hartert TV, Ray SC, et al. Oral antibiotic treatment of right-sided staphylococcal endocarditis in injection drug users: prospective randomized comparison with parenteral therapy. Am J Med 1996; 101: 68-76.
4, 7 Iversen K, Ihlemann N, Gill SU, et al. Partial Oral versus Intravenous Antibiotic Treatment of Endocarditis. N Engl J Med. 2019;380:415-24.
5 Bundgaard H, Ihlemann N, Gill SU, et al. Long-term outcomes of partial oral treatment of endocarditis. N Engl J Med. 2019;380:1373-4.
6 Chowdhury J, Patel R, Chambers H. Oral versus Intravenous Antibiotics for Endocarditis. N Engl J Med. 2021;385:1141-3.
8 Riedel DJ, Weekes E, Forrest GN. Addition of Rifampin to Standard Therapy for Treatment of Native Valve Infective Endocarditis Caused by Staphylococcus aureus. Antimicrob Agents Chemother 2008; 52: 2463–7.
9 Rajaratnam D, Rajaratnam R. Outpatient Antimicrobial Therapy for Infective Endocarditis is Safe. Heart Lung Circ 2021;30:207-15.
10 Baddour LM, Wilson WR, Bayer AS, et al. Infective Endocarditis in Adults: Diagnosis, Antimicrobial Therapy, and Management of Complications: A Scientific Statement for Healthcare Professionals From the American Heart Association. Circulation. 2015;132:1435-86.
11 Fanucchi LC, Walsh SL, Thornton AC, Lofwall MR. Integrated outpatient treatment of opioid use disorder and injectionrelated infections: A description of a new care model. Prev Med 2019 Nov;128:105760.

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