Trattamento anticoagulante intravenoso protratto dopo PCI primaria per STEMI: può essere utile?

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Indice

Stefano De Servi, Università degli Studi di Pavia

Inquadramento

Non vi sono molti dati sul rischio/beneficio di un trattamento anticoagulante protratto dopo PCI primaria per STEMI. Le linee guida ESC – più recenti – raccomandano nelle sindromi coronariche acute[1]Byrne RA, Rossello X, Coughlan JJ, et al. ESC Scientific Document Group. 2023 ESC guidelines for the management of acute coronary syndromes. Eur Heart J. 2023;44:3720–3826. … Continua a leggere di interrompere il trattamento effettuato durante la procedura (anche se con livello di evidenza C), mentre le linee guida ACC/AHA neppure menzionano l’argomento. Peraltro, un’infusione di bivalirudina per 4 ore dopo la PCI è stata associata a una riduzione di eventi ischemici precoci[2]Ducrocq G, Steg PG, Van’t Hof A. Utility of post-procedural anticoagulation after primary PCI for STEMI: insights from a pooled analysis of the HORIZONS-AMI and EUROMAX trials. Eur Heart J … Continua a leggere. Il trial RIGHT (Comparison of Anticoagulation Prolongation vs No Anticoagulation in STEMI Patients After Primary PCI) ha verificato il rischio/beneficio di tre trattamenti anticoagulanti (eparina non frazionata, eparina a basso peso molecolare, bivalirudina) prolungati sino a 48 ore dopo una procedura di PCI primaria.

Lo studio in esame

Sono stati inclusi 1.706 pazienti sottoposti a PCI ritenuta ad alto rischio per la presenza di  almeno una variabile  clinica  (diabete, nefropatia cronica, infarto acuto) o anatomica (malattia tronco comune, biforcazioni, occlusioni croniche, lesioni ostiali, ristenosi, lesioni lunghe, graft, malattia multivasale trattata). É stata effettuata una strategia “attiva” in 849 pazienti e consisteva nell’esecuzione routinaria di test da sforzo a 1 anno dalla PCI (n = 849), mentre era stata eseguita una strategia conservativa (test da sforzo eseguito solo se clinicamente necessario) in 857 pazienti. I pazienti diabetici erano più anziani, di sesso femminile, ipertesi, con precedente  PCI,  fibrillazione  atriale, malattia multivasale, nefropatia cronica. Il primary endpoint (morte per ogni causa, infarto miocardico, ospedalizzazione per angina instabile) a 2 anni risultava più elevato nei pazienti diabetici che nei non-diabetici (7.3% vs 4.8%; HR 1.52; 95% CI 1.02–2.27; P=.039). L’incidenza di endpoint primario nei due gruppi di strategia attiva o conservativa risultava simile sia nei pazienti diabetici (7.1% vs 7.5%; HR 0.94; 95% CI 0.53–1.66; P=.82) che nei non- diabetici (4.6% vs 5.1%; HR 0.89; 95% CI 0.51– 1.55; P=.68). Inoltre veniva osservata alcuna differenza riguardo alle singole componenti dell’endpoint primario (vedi Tabella). L’analisi “landmark”, a partire dal primo anno di follow- up, forniva risultati analoghi. Nei diabetici la strategia attiva comportava, soprattutto tra il primo e secondo anno di follow-up, un maggior numero di coronarografie (8,7% versus 2.6%, P=0.003) e di nuove rivascolarizzazioni (5.8% versus 2.3%, P=0.03).

Lo studio in esame

I risultati dello studio RIGHT suggeriscono che non vi sia alcun vantaggio dalla somministrazione prolungata di anticoagulante dopo PCI primaria, in termini di riduzione di eventi ischemici.

Interpretazione dei dati

Lo studio intende fare chiarezza su un argomento del quale molto si è discusso in passato, talora sulla base di dati contrastanti. Lo studio mette una pietra tombale sulla prassi di prolungare la terapia anticoagulante dopo una PCI primaria in una popolazione di pazienti STEMI, peraltro giovane e a rischio globalmente basso (età media 61 anni, stabilità clinica, generalmente 1 solo stent impiantato, mortalità a 30 giorni inferiore al 2%). Due osservazioni su questo studio: la prima è che l’ipotesi di base (eventi ischemici all’8% nel gruppo placebo) si è rivelata non realistica, fondata su casistiche pubblicate oltre 10 anni fa, e non giustificata sulla base della popolazione arruolata, da considerarsi a rischio decisamente basso. Il secondo dato che merita un commento, onde dissipare equivoci generati dallo studio, riguarda una presunta diversa efficacia degli anticoagulanti testati. Infatti, come si vede dalla Tabella, l’enoxaparina ha ridotto significativamente l’endpoint primario, risultato che non si è verificato per eparina non frazionata e bivalirudina. Va ricordato tuttavia, che l’uso dell’anticoagulante non era randomizzato centralmente, ma ogni centro sceglieva quale dei tre testare verso placebo in base alla propria esperienza e preferenza, una limitazione che gli autori riconoscono e appropriatamente menzionano. Va inoltre aggiunto che gli autori sono molto cauti nel commentare i dati relativi alla possibile diversa efficacia dei singoli anticoagulanti testati nel trial, benchè nelle loro conclusioni osservino che possono esistere differenze tra i vari anticoagulanti (a vantaggio in particolare di eparina non frazionata) che dovrebbero essere testate in opportuni studi di confronto. Tuttavia, se si guardano i risultati della Tabella, le differenze rispetto a placebo sono dovute a valori di eventi molto diversi proprio nel gruppo placebo (4.5% nel gruppo enoxaparina, 2.2% nel gruppo bivalirudina, 0.6% nel gruppo eparina non frazionata), piuttosto che nel gruppo di farmaco attivo (oscillanti tra 2.1% e 3.1%). In particolare, l’ipotetico effetto negativo dell’eparina non frazionata sembra causato da un numero estremamente limitato di eventi nel corrispondente gruppo placebo (0.6%), piuttosto che da un eccesso di eventi nel gruppo del farmaco attivo. Perciò si tratta, con ogni probabilità, di “chance findings” sui quali non pare prudente speculare ulteriormente.

Bibliografia

Bibliografia
1 Byrne RA, Rossello X, Coughlan JJ, et al. ESC Scientific Document Group. 2023 ESC guidelines for the management of acute coronary syndromes. Eur Heart J. 2023;44:3720–3826. doi:10.1093/eurheartj/ehad191
2 Ducrocq G, Steg PG, Van’t Hof A. Utility of post-procedural anticoagulation after primary PCI for STEMI: insights from a pooled analysis of the HORIZONS-AMI and EUROMAX trials. Eur Heart J Acute Cardiovasc Care. 2017;6:659665.doi:10.1177/2048872616650869.

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