Perché la necessità di nuove Linee Guida (LG)? Secondo lei a che punto eravamo in termini di implementazione delle raccomandazioni delle vecchie Linee Guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) del 2016?
Buona domanda, che però scava nel problema dell’apparente ineluttabilità della non aderenza ai dosaggi dei farmaci, della grossolanità attuale delle fenotipizzazioni, del maltrattamento delle comorbidità e della definizione di implementazione. Quindi restava, e resta, molto da fare. Comunque la mia risposta è si. Le Linee Guida non servono solo per cambiare le direttive riguardo alla gestione delle malattie, ma per aggiornare e soprattutto per ragionare e supportare le decisioni del medico. Il medico pratico, che legge quello che gli capita in mano, di solito pubblicistico e guidato, credo che abbia bisogno di sentirsi al sicuro, confortato anche dal sapere che non è cambiato niente, o sentirsi aggiornato se è cambiato qualcosa. La stessa osservazione vale per il medico specialista. In base a questo razionale le LG dovrebbero avere una cadenza fissa, con intervalli tra l’una e l’altra non superiori a 3 anni, e aggiornamenti intermedi da pubblicizzare per notizie utili. Le LG riassumono il sapere della comunità medico-scientifica che le propone al mondo medico immerso nell’incertezza quotidiana. Devono costituire il riferimento professionale. Una certezza relativa, applicabile nel giorno in cui la uso, in un contesto di incertezza perenne.
Tra il 2016 e la pubblicazione di questo nuovo documento, quali sono stati i trial clinici più importanti?
Preferisco rispondere non con una lista di trial, ma menzionando i problemi che sono stati se non risolti, quanto meno approfonditi nella letteratura degli ultimi 4 anni. Per l’insufficienza cardiaca a frazione di eiezione ridotta (HFrHF) questo riguarda senz’altro la terapia farmacologica: gli inibitori SGLT2 (gliflozine) e ARNI (Angiotensin Receptor- Neprilysin Inhibitor). Per l’insufficienza cardiaca a frazione di eiezione preservata (HFpEF), si è lavorato sull’inquadramento diagnostico di una materia composita e sfuggente, focalizzando la pressione polmonare come riferimento e i biomarcatori, mai patognomonici (nemmeno il NT-proBNP), ma fortemente informativi e orientanti sulla dinamica fisiopatologica in corso. Un altro aspetto puntualizzato riguarda l’interventistica ablativa della fibrillazione atriale, rilevante nello scompenso. I due trial che per numerosità, metodologia (randomizzazione) e disponibilità temporale di follow-up avrebbero dovuto essere decisivi – il CASTLE HF e il CABANA – non lo sono stati. Il primo arruolò 363 pazienti con frazione di eiezione ventricolare sinistra <35% portatori di ICD – quindi un gruppo molto selezionato di pazienti – 25% dei quali trasferiti dal braccio farmacologico a quello interventistico durante gli 8 anni di arruolamento-follow-up (2008-2016), alterando in modo importante l’assetto del trial. Il CABANA, arruolando pazienti non selezionati per valore della HFpEF si ritrovò alla fine degli 8 anni di arruolamento (allo stesso modo prolungato, dal 2009 al 2017) con l’80% dei pazienti dichiarati scompensati con una FE ≥50% (non in tutti il valore della FE era noto) e con un cross-over del 39% dei pazienti da un braccio all’altro, vanificando l’impostazione randomizzata dello studio. Inoltre, la diagnosi di scompenso cardiaco venne basata unicamente sulla classe NYHA ≥2. Il DRAFT trial, anch’esso promettente trial ablativo condotto nei pazienti con scompenso, è stato interrotto precocemente per futilità. Le LG ESC attuali raccomandano (in Classe IA) l’ablazione in pazienti scompensati con FE ridotta e farmaci antiaritmici dimostrati inefficaci. Nelle LG, prodotte in vari paesi del mondo, si può trovare quello che si preferisce, fino a una esplicita indifferenza non solo al valore della FE, ma anche al fatto che lo scompenso cardiaco esista o no. Molto importante e dinamica è l’interventistica valvolare che sta incidendo in modo determinante sulla conduzione clinica e sulla prognosi dei pazienti scompensati con vizi valvolari primitivi o secondari, con un interesse rapidamente crescente anche alla cenerentola delle valvole cardiache: la tricuspide.
Gli inibitori SGLT2 (o gliflozine) per i pazienti con HFrEF (raccomandazione di classe I, livello di evidenza A) sono senza dubbio tra le principali novità di queste nuove Linee Guida e costituiscono un nuovo pilastro per il trattamento di questo fenotipo di scompenso cardiaco. Quali sono i principali meccanismi d’azione di questa nuova classe di farmaci? Quali molecole abbiamo attualmente a disposizione?
I numerosi meccanismi di azione delle gliflozine sono riportati ormai ovunque. Hanno un’azione antiossidante, normalizzando struttura e funzione mitocondriale, riducendone la componente infiammatoria a livello cardiaco e attenuando l’ipertrofia e la disfunzione sistolica del miocardio; riducono lo scambio sodio/idrogeno renale con una conseguente azione diuretica e riducono la massa adiposa epicardica, mitigandone l’effetto infiammatorio che può avere caratteristiche diverse associate alla diversa natura della cardiopatia, anche in termini di FE. Questo sarà un aspetto da approfondire, considerando gli effetti positivi delle glifozine anche nei pazienti HFpEF, nel trial EMPEROR e altri prossimi. Questa dissincronia tra LG e nuove evidenze è semplicemente dovuta allo scollegamento temporale. La comunicazione dei risultati del trial al mondo è avvenuta poche ore dopo la stampa delle LG. Correzioni non tarderanno.
Il sottogruppo a frazione d’eiezione intermedia (FE 41-49%) è stato rinominato secondo la nuova definizione di scompenso cardiaco, come “mildly reduced ejection fraction” (HFmrEF), in quanto sembrerebbero beneficiare delle stesse strategie terapeutiche degli HFrEF. Quali sono le attuali evidenze?
Prevalentemente chiacchiere sul HFmrEF, ingombrante per il tentativo di classificare in frammenti una linea fisiopatologica in realtà continua, con cluster clinicamente diversi (sempre di più allontanandosi dalla media), perché composti da miscele fisiopatologiche in parte diverse, che si trasformano nel tempo in rapporto all’evoluzione clinica del paziente (infatti, com’è ovvio, anche la FE si modifica, riclassificandolo) e alla evoluzione delle comorbidità il cui impatto può modificarsi nel corso dell’evoluzione sia loro che della malattia principale. La terapia potrà essere più efficace se si individuano le componenti guida (da trattare) per l’una e per l’altra miscela di fattori patogeni. Sono d’accordo, comunque, con la modifica del criterio numerico che distingue il reduced dal mildly reduced, cioè ≤40% anziché <40%. Questa è la “novità”, apparentemente banale, ma se si contano i pazienti che si collocano nella fascia intermedia dei valori di FE si vede che un’unità modificata si porta con sé migliaia (o milioni a livello globale) di ammalati. Sono d’accordo anche con l’affermazione che, presi in blocco i tre fenotipi FE, l’intermedio è più vicino al reduced che al preserved. Peraltro, aumentano i trial in cui si tende a convergere sul 45%, salutando i mild. Come succede spesso in medicina, i guai incominciano quando si scandiscono definizioni categoriche su materie fluide. Confidiamo nel deep learning per scrutare meglio i dati e coglierne il contenuto predittivo (che probabilmente c’è) e quindi il senso clinico.
Il nuovo algoritmo terapeutico per i pazienti con HFrEF è stato semplificato rispetto alla versione precedente delle Linee Guida. Quali sono le principali differenze?
Più che una semplificazione, è il modo di maneggiare i farmaci che cambia (e con questo si torna alla prima domanda, al concetto di implementazione). Notate il coro sul “tutto e subito” riguardante i farmaci da usarsi dopo la diagnosi di scompenso e ricordate le ironie fatte sul “tutto a tutti”, quando è stata lanciata la medicina personalizzata. Ora la variazione di algoritmo consiste nell’abbreviare decisamente i tempi di associazione dei farmaci indicati, così da raggiungere la terapia massimale tollerata entro 3-4 settimane. Sugli schemi temporali di associazione, probabilmente si discuterà a lungo, ciascuno avendo pochi dati a disposizione. La querelle si assesterà nel tempo. Il punto è che il razionale dei nuovi algoritmi è sostanzialmente basato su due assiomi: il primo è che i farmaci inclusi seguono percorsi fisiopatologici diversi e quindi il beneficio è incrementale. Questo è un punto ben documentato (semmai, problematica può essere nei diabetici l’associazione delle gliflozine con la metformina). Il secondo è che gli effetti collaterali non sono sommatori, ma al contrario alcuni farmaci potrebbero essere meglio sopportati per la co-presenza degli altri. A mio parere questa affermazione va testata meglio di quanto lo sia stata, e la sagra dei fenotipi a spanne ai quali somministrare questo o quello dovrebbe finire. Vanno fatti – subito – studi mirati (peraltro alcuni in corso) per testare algoritmi con razionale solido, focalizzando soprattutto pazienti con comorbidità. Non dovrebbe più accadere che concluso un trial, esposti e discussi i risultati principali e scarseggiando altri dati si ricorre alle comorbidità per pubblicare qualcos’altro (soprattutto in trial aziendali con risultati positivi al farmaco testato del quale si vuole ampliare l’arena dei trattabili) disponendo di quasi nulla sulla/e comorbidità perché dati pertinenti non erano di interesse quando il dataset è stato impostato. Ai trial andrebbero associati studi osservazionali di prospettiva nazionale o meglio internazionale di all comers. (come lo studio EUROHEART in preparazione avanzata). Mi vengono in mente i nostri studi BRING-UP (ANMCO). Il primo è stato condotto sui beta-bloccanti, nei confronti dei quali lo scetticismo allora era grande e diffuso (fino a pochi anni prima l’insufficienza cardiaca era una controindicazione assoluta a usarli). Finalità esplicita (scritta) BRING-UP: farli usare. Non entro in dettagli, ma alla fine dello studio l’uso dei beta-bloccanti era raddoppiato.
Una opzione terapeutica a disposizione per i pazienti con HFrEF, oltre agli inibitori SGLT2 dei quali si è già parlato, è il sacubitril/ valsartan (raccomandazione di classe I), hanno entrambi note proprietà diuretiche.Quali indicazioni dovrebbe seguire il clinico per la gestione di una concomitante terapia con diuretici?
Usarli entrambi, a dosaggi definiti individualmente, monitorando oltre alla diuresi, gli elettroliti plasmatici, la pressione arteriosa, e la funzionalità renale. Il problema si pone diversamente per i pazienti con scompenso severo. Va tenuto conto dei risultati di uno studio randomizzato molto recente di sacubitril/ valsartan vs valsartan, pubblicato su JAMA, sul quale, in una intervista vocale, è riportato anche il parere di Mann e di Braunwald (primo e ultimo autore rispettivamente). Il trial condotto in pazienti con scompenso avanzato e interrotto per arruolamento lento, è risultato neutro: no harm-no benefit. Inconclusivo, senza trend suggestivi per efficacia. Non credo che il sacubitril/valsartan sarà raccomandato nello scompenso avanzato in assenza di altri dati.
Per quanto riguarda la gestione terapeutica dei pazienti con HFpEF non sono state introdotte significative novità. Tuttavia, quali sono i possibili scenari futuri anche alla luce delle recenti evidenze dello studio EMPEROR-Preserved?
Ipoteticamente, le strade mi sembrano due. La prima è azzeccare, anche per caso (com’è stato per le gliflozine) o meglio con una ricerca finalizzata, una classe di farmaci che centra un punto critico di un percorso sul quale convergono patologie diverse, così da ottenere risultati forti abbastanza da essere riconosciuti in una popolazione eterogenea come inevitabilmente è oggi il HFpEF. È stata la strada dei farmaci neurormonali nello HFrEF. La seconda è andare per gradi provando e riprovando farmaci supposti attivi in strade diverse, ciascuna potenzialmente responsabile di una parte della patologia HFpEF. Il disegno migliore, in questo caso, sarebbe l’“adaptive basket”. Un esempio chiaro è l’amiloidosi che, nota la patogenesi e individuata una terapia, è uscita dalla famiglia HFpEF per acquisire uno spazio proprio che attualmente si stima essere, almeno in parte, responsabile del 10-20% (dipende dalla popolazione) dei casi di HFpEF.
In questa versione delle Linee Guida, sono state incluse sezioni specifiche per la gestione dell’amiloidosi cardiaca e delle cardiomiopatie, oltre ad algoritmi specifici per il trattamento dei diversi quadri di scompenso cardiaco acuto e indicazioni per la gestione della terapia diuretica in fase acuta. Cosa ne pensa?
Mi sembra una scelta pratica e prudente. Pratica perché si tratta di patologie affini, delle quali è bene venga affrontato il problema diagnostico disponendo di una conoscenza complessiva, e consentendo, quando fosse il caso, collegamenti chiarificatori. Includere lo scompenso acuto mi sembra ovvio, per le ragioni di continuità fisiopatologica nel tempo accennate sopra, tanto più vere nel caso individuale del paziente che sopravviva, se la patologia prevalente in fase acuta viene individuata. Le riflessioni sulla terapia diuretica sono rilevanti se si tiene conto della sequenza, oggi ben classificata in base ai monitoraggi emodinamici prolungati ambulatoriali della “congestione emodinamica” (ipertensione polmonare preclinica da sforzo), distinta dalla “congestione tissutale” (clinica manifesta). I diuretici restano l’arma di controllo e di parziale risoluzione degli scenari clinici acuti. Ci si augura che il problema si ridimensioni con l’uso di farmaci che abbiano anche effetto diuretico come le gliflozine.
A oggi, quali sono le maggiori criticità nella gestione del paziente con scompenso cardiaco avanzato e come viene affrontato dalle nuove Linee Guida?
A oggi, come in passato hanno detto mille clinici illustri, il problema resta la diagnosi. La diagnosi eziopatogenetica, non la diagnosi descrittiva. Scrivere cardiomiopatia dilatativa dice solo che la cardiopatia non è restrittiva, ma ci si trova immobili al punto di partenza. Perché il cuore si è dilatato e meccanicamente non ce la fa, pressato dalla congestione, quindi daivolumi e dalla incombente pressione del circolo che sfidano la sua straordinaria ma ripetitiva e inesorabilmente necessaria dinamica biochimica? Qui si pone ancora una volta il problema della definizione. Cosa si intende per “scompenso avanzato” e la definizione è augurabile che cambi nel tempo a venire, nel senso che diventi recuperabile quello che oggi non lo è. Sono molto fiducioso nel futuro e credo che lo sviluppo tecnologico, di analisi e di calcolo, daranno contributi decisivi alla comprensione della biologia umana. Lo scompenso cardiaco sarà una importante palestra di verifica. Oggi il problema più critico di un paziente con scompenso avanzato, è il fatto che è arrivato a questo punto evolutivo, di solito senza ritorno. Rifatta un’analisi diagnostica in base ai dati esistenti, possibilmente evitando verifiche ormai inutili, restano vie anguste, percorribili solo da pazienti molto selezionati: circolazione e spesso respirazione assistita temporanea. Possibilmente in tempi lunghi il trapianto. Ma questa è un’area specialistica che è bene venga trattata da esperti del settore con altrettanto esperti del settore. In proposito, mi limito a menzionare qui il problema della multidisciplinarietà che dovrebbe accompagnare le multimorbidità, stabili o temporanee, che almeno a livello sperimentale non dovrebbe essere ulteriormente rinviato… nel silenzio di tutti.
Quali sono i principali gap che le prossime Linee Guida dovranno colmare?
Per coerenza con quanto scritto finora il gap principale su cui concentrarsi nel prossimo futuro, dovrebbe essere quello delle sindromi – insiemi di sintomi a eziologia ignota o multipla – nella perdurante mancanza delle informazioni necessarie per trasformarle in patologie distinte a eziologia nota, e quindi a terapia individuabile. Lo scompenso cardiaco è la sindrome a maggiore incidenza di invalidità e di mortalità. Incominciamo da questa. Il NIH (National Institutes of Health) ha identificato il HFpEF come obiettivo primario di ricerca per il decennio 2020 stanziando 1.5 miliardi di dollari.
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