Stefano De Servi

Associazione temporale tra episodi di fibrillazione atriale subclinica e rischio di ictus cerebrale.

La fibrillazione atriale (FA), rilevata all’ECG tradizionale in pazienti sintomatici, è un importante fattore di rischio per ictus cerebrale. In questi ultimi anni si sono accumulati studi che hanno dimostrato che anche gli episodi di FA asintomatica, rilevata da pacemakers o altri device a permanenza (CIEDs) siano predittivi di ictus cerebrale, sebbene con “potenza’ meno forte rispetto agli episodi di FA sintomatica rilevata tradizionalmente. Tuttavia, non sono state riscontrate evidenze a supporto dell’ipotesi che l’ictus cerebrale sia temporalmente preceduto da episodi di FA subclinica.

Lo studio delle relazioni temporali tra episodi di FA, anche asintomatica, e insorgenza di ictus cerebrale è di estrema importanza per due motivi principali. Il primo motivo è di ordine fisiopatologico: l’eventuale dimostrazione di una qualche associazione temporale tra episodio di FA e insorgenza di ictus cerebrale, darebbe forza all’ipotesi tradizionale dell’ictus come possibile conseguenza diretta di un trombo sviluppatosi nel cuore durante la FA e successivamente distaccatosi (ipotesi dell’ictus cardio-embolico). Al contrario, l’eventuale assenza di tale associazione temporale potrebbe far pendere la bilancia verso l’ipotesi alternativa che vedrebbe FA e ictus cerebrale come co-fenomeni di una situazione patologica di base ad effetti sia proaritmici che pro-trombotici. Il secondo motivo, non meno importante, è di ordine terapeutico: nei pazienti portatori di CIEDs, nei quali si evidenzino episodi di FA asintomatica, è giusto somministrare farmaci anticoagulanti allo scopo di prevenire l’ictus? In altri termini, il beneficio sulla riduzione dell’ictus cerebrale in questi pazienti giustificherebbe il rischio emorragico legato alla terapia anticoagulante?

Gli studi finora disponibili hanno avuto il grosso limite della relativamente scarsa numerosità della casistica. Uno studio, eseguito solo in soggetti di sesso maschile portatori di defibrillatori impiantabili, ha suggerito un aumento del rischio di ictus cerebrale nei 30 giorni successivi all’insorgenza di FA subclinica di lunga durata.

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Nefropatia acuta da mezzo di contrasto dopo pci: quanto può servire uno score di rischio per predirne l’insorgenza?

La nefropatia acuta da contrasto (AKI) è una nota e temuta complicanza delle procedure di PCI. Al suo verificarsi contribuiscono la presenza di comorbilità, in particolare una malattia cronica renale preesistente e il diabete, la complessità delle procedure, la quantità di mezzo di contrasto iniettato. Per ridurre e mitigare l’incidenza di questo fenomeno, che ha un peso prognostico non trascurabile, gli operatori impiegano una serie di accorgimenti quali l’utilizzo di mezzi di contrasto a bassa osmolarità, l’espansione del volume, la sospensione cautelativa di alcuni farmaci. Per predire l’insorgenza di AKI sono stati proposti numerosi score di rischio, alcuni tuttavia un po’ datati, altri complessi e di non facile utilizzo.

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L’infarto miocardico dopo angioplastica coronarica: quale definizione utilizzare?

L’infarto miocardico periprocedurale (PPMI) è una complicanza non infrequente delle procedure di angioplastica coronarica (PCI) che limita l’impatto clinico favorevole della procedura. Ne sono state proposte alcune definizioni che differiscono tra loro, sia per le soglie di incremento postprocedurale della troponina (cTn), che per la presenza o meno di criteri ancillari che indichino il rischio di complicanze angiografiche o di nuova ischemia miocardica. Tuttavia, non c’è consenso su quale definizione utilizzare, anche se si concorda sull’impatto prognostico che una corretta definizione deve avere, in particolare sulla successiva mortalità cardiovascolare. Il problema non è di poco conto, in quanto l’incidenza di PPMI può variare dal 2% al 18% in base alle diverse definizioni, modificando, a seconda di quella utilizzata, il risultato di trial che confrontino la PCI sia con la terapia medica che con il bypass aortocoronarico.

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L’anticoagulazione nei pazienti con COVID-19

Il Covid-19 è caratterizzato da una particolare reattività delle cellule infiammatorie mononucleari, con conseguente rilascio citochinico, e da endotelite multiorgano, condizioni che predispongono a una alta incidenza di fenomeni trombotici arteriosi, venosi che raggiunge il 35% nei pazienti critici. Studi osservazionali e randomizzati hanno verificato se una anticoagulazione a piena dose possa migliorare l’outcome dei pazienti rispetto alla semplice profilassi con eparina, riscontrando, limitatamente ai pazienti che non necessitino di un supporto respiratorio, un possibile beneficio dell’eparina a dosaggio terapeutico, associato tuttavia a un aumento del bleeding. Lo studio internazionale randomizzato FREEDOM COVID (NCT04512079) sta verificando in 3.600 pazienti ospedalizzati per Covid-19 non in fase critica, quale di tre trattamenti (enoxaparina a dose profilattica, enoxaparina a dose terapeutica o apixaban a dose terapeutica) si associ a una riduzione di un outcome composito a 30 giorni che comprende mortalità per ogni causa, peggioramento respiratorio o emodinamico che richieda ricovero in terapia intensiva, tromboembolismo sistemico o polmonare, ictus ischemico. Il completamento dell’arruolamento è stimato per luglio 2022.

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Ten-year outcomes after off-pump and on-pump coronary artery bypass grafting: an inverse probability of treatment weighting comparative study.

L’impatto prognostico della rivascolarizzazione miocardica “off-pump” (OPCAB), rispetto al bypass aorto-coronarico (CABG) tradizionale sugli esiti clinici a lungo termine, è oggetto di intenso dibattito e rappresenta l’obiettivo del presente studio nato da due studi prospettici di coorte. 10.988 pazienti sono stati sottoposti a CABG isolato (di cui il 27.2% sottoposti a OPCAB). La sopravvivenza a lungo termine non aggiustata è risultata significativamente maggiore nei pazienti sottoposti a OPCAB, confermata con modelli di aggiustamento (hazard ratio [HR]: 1.08, 95% intervallo di confidenza [CI]: 1.01-1.14, p=0.01). L’OPCAB è risultato associato a un aumentato rischio di eventi cardiovascolari maggiori a 10 anni (HR aggiustato 1.18, 95% CI: 1.12-1.23, p<0.001), di rivascolarizzazione ripetuta nei primi 6 mesi (HR 2.27, 95% CI 1.39-3.85, p><0.001) e di ictus (HR 1.22, 95% CI: 1.10-1.35, p><0.001). I risultati di questo studio suggeriscono che < <0.001), di rivascolarizzazione ripetuta nei primi 6 mesi (HR 2.27, 95% CI 1.39-3.85, p<0.001) e di ictus (HR 1.22, 95% CI: 1.10-1.35, p<0.001). I risultati di questo studio suggeriscono che l’OPCAB è associato a un rischio maggiore di mortalità, necessità di rivascolarizzazione miocardica ripetuta e ictus a 10 anni rispetto al CABG on-pump.

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L’impianto di pacemaker dopo TAVI influisce sulla prognosi a distanza?

La necessità di impiantare un pacemaker (PM) è la complicanza più frequente delle procedure di TAVI data la vicinanza del tessuto di conduzione all’anello aortico, ed è particolarmente elevata utilizzando valvole autoespandibili, con percentuali riportate tra il 9% e il 26% delle procedure [1]. L’impatto prognostico di tale complicanza tuttavia non è ancora chiaro.

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Efficacia del trattamento delle emorragie in pazienti che assumono anticoagulanti orali diretti.

Sempre maggiore è l’utilizzo dei farmaci anticoagulanti orali diretti (DOAC), ma anche più frequenti sono le urgenze rappresentate dalle emorragie nei pazienti trattati, forse per il maggior ricorso all’anticoagulazione nei pazienti in cui essa è indicata rispetto agli anni in cui solo gli inibitori della vitamina K erano disponibili [1]. È perciò essenziale, per il clinico, avere dati sull’efficacia del trattamento disponibile in questi casi, dal concentrato di complesso protrombinico a 4 fattori (4PCC) all’utilizzo di antidoti specifici come idarucizumab per dabigatran e andexanet alfa per gli inibitori del fattore Xa.

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Revascularization strategies in patients with diabetes and stable ischemic heart disease: a systematic review and meta-analysis of randomized trials.

La strategia di trattamento ottimale (rivascolarizzazione coronarica versus terapia medica ottimale-OMT) nei pazienti con diabete mellito (DM) e cardiopatia ischemica stabile (SIHD) è ancora dibattuta. In questa revisione sistematica della letteratura e meta-analisi, gli Autori hanno analizzato 5.742 pazienti da 4 trial con lo scopo di valutare i risultati clinici a lungo termine della rivascolarizzazione coronarica mediante angioplastica percutanea o bypass aortocoronarico rispetto alla OMT in pazienti con DM e SIHD. La rivascolarizzazione non è risultata associata a una riduzione significativa del rischio di eventi cardiovascolari maggiori rispetto alla OMT [hazard ratio, (intervallo di confidenza al 95%): 0,95 (0.85- 1.05), p=0.31; I2: 0%]. La scelta di procedere alla rivascolarizzazione in questi pazienti dovrebbe tener conto di altri parametri come la sintomatologia, l’anatomia coronarica, il grado di ischemia, la funzione ventricolare sinistra e la presenza di concomitanti comorbidità.

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